Passato in affitto

la foto è di davide olivi

Non so se nella vita di tutti c’è un Enrico.
Nella mia sì, barbuto, con un sorriso stampato che quando ci penso mi viene subito un sorriso di rimando.
C’era la campagna intorno, una di quelle da film, con un casale, con gli animali, con il vento sferzante e il gelo tagliente. Se ci penso sento ancora il freddo, mi battono i denti, mi viene da toccarmi il naso con la lingua per scaldarlo, che mi viene ancora bene.
Sospiro pensando ai cestini di biciclette che hanno conosciuto le mie natiche piccine, contornate da vestitini leggeri, alle serate di caminetti accesi e di bambini vocianti che hai voglia a dire loro di stare zitti, che c’era il varietà alla tv.
Quella casa conteneva generosa tutte le voci, urla di gioia strozzate da giorni interminabili, che spesso pareva fosse sempre notte e sempre inverno.
Le ruote sull’erba e il cielo muto, i cuori affannati di bambini troppo distratti per fermare quei momenti.
Nomi dimenticati, come fossero sfollati in un casermone in attesa di identificazione.
Eppure eravamo noi quei bambini e i grandi non facevano testo anche quando dicevano che era ora, che toccava andare a letto, che si era fatto tardi. E anche se le dita gelide desideravano una coperta sotto la quale scaldarsi, c’era la vita lì, fuori dalle coperte e c’era Enrico, che col suo sguardo faceva anche scordare l’ennesima marachella, che in silenzio radiografava i pensieri e restituiva solo una delle sue battute in bolognese, smozzicate, ché non si sentisse troppo.
Per anni quel fragore è rimasto confuso come i panni dopo la centrifuga. Squassato dal tempo e dalle altre facce, ma in quell’angolo, come se quello fosse suo e nulla potesse portarlo via.
E ci sono tornata, con una timidezza quasi da scolaretta, timorosa che nessuno potesse ricordare.
E ci ho trovato le foto della mia infanzia, immagini che non sapevo di avere popolato.
Quadretti di famiglie inventate e posticce che per anni sono stati la mia, quella che mi ero creata, nella fantasia.
E lui mi ha riportata in quel posto, che ricordavo immenso, pieno di verde e di legno, come se il resto dei materiali si fossero dimenticati esistessero al mondo.
E ho trovato un cancello in ferro battuto, un muretto, che forse c’era sempre stato, e tanto silenzio. Come se nessun rumore si fosse mai udito.
Due livornesi dentro, una coppia matura di signori, che mi hanno permesso di rivedere quelle stanze, che ricordavo in altro modo, calde e con profumo di cucina dovunque.
Ho trovato un’altra vita dentro e il silenzio mi raccontava di quell’uomo che mi accompagnava in quelle stanze, con le lacrime agli occhi.
Enrico, che è anche un pezzo di me, che possiede gli anni in cui le fantasie erano le uniche regine dei miei giorni. Regine che sono state spodestate.
Da giorni prima e dopo. Senza corona. Vendute per poche lire.
(E.)

Published in: on settembre 18, 2008 at 8:53 am  Comments (19)