Please please please

Misera vita quella umana.
Liberamente incatenata alle sue piccole, stupide abitudini, che come quelle dei gatti, si prendono in fretta e si lasciano con fatica.
Abitudini di caffè e sigaretta, di sere di frutta digitale, grappoli di vita insapore, di pixel e di finto pulsare.
Solitudine e allucinazione.
L’uomo e i suoi simili, orgia di unicità sommabili.
Distratti dallo sguardo di un cursore che lampeggia e ricorda che l’oggetto è lì, costruito per il necessario, ma è destinato a finire, prima di noi, a consumarsi e a lasciarci assetati nel deserto delle parole abortite.
Miraggi di viaggi in differita, di scoperte già sgusciate, come i pistacchi uccisi nel posacenere.
Ricerche di comunanze, fratelli mai visti entrano ed escono come lanciati da uno sparapalle e la racchetta fischia nel raggiungere il proiettile che si frantuma in una somma di puntini neri, che riempiono a caso uno spazio, che nulla ha dello spazio.
La sera è rotta dal rumore dei tasti, in stanze illuminate da pareti che rimandano indietro luci troppo basse.
Motori di ricerca di fantasie inespresse, buste di droghe senza corpo e senza nessun prezzo.
La bocca serrata, accenna a seguire la canzone di sottofondo, poi si ferma in bilico su due lettere, in cerca di un punto. E lo trova rassicurata.

(E.)

qui i suoni
Published in: on gennaio 31, 2008 at 12:08 am  Comments (17)  
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Stati di colore

Sui campi abbandonati sul ciglio della strada si alza un velo compatto di bianco. Le mattine di gennaio sono così, bizzarre e scostanti, come una donna. Si alzano col sole e intiepidiscono le case, scaldano i colori degli intonaci, pallidamente li fanno arrossire di lontano mentre i navigli come vermiciattoli sono coperti da piccole nubi, come azoto liquido, che vorresti sfiorare con le dita per percepirne la consistenza.
Il cielo è una speranza, con fazzoletti sparsi di varie forme, pronti a raccogliere le lacrime del mattino, pronti ad ammorbidire la caduta sull’asfalto del colore, che si ingrigisce e si fa cupo, mentre ruote infelici lo trapassano veloci.
Un giallo gassoso trafigge i vetri delle case e le illumina di giorno, sveglia i gerani infreddoliti e scosta le tende. Le lenzuola stese si muovono piano, pesanti di umidità, cariche di aria satura di tubi di scappamento.
Il verde solido si fa più nitido a tratti, laddove il velo bianco e paterno lascia la terra per sciogliersi al sole.
Un aereo passa incurante e confonde i suoni di due voci che si salutano.
Il mattino scorre piano, mentre tutto il resto intorno va e non si ferma a guardarlo, col suo oro in bocca e la sua voglia di caffè.
E il contrasto stupisce, fra la natura che dirompe lenta e incosciente e l’umanità che sbadigliando inizia a correre come la gazzella nella savana.

(E.)

sotto le biglie: yellow
Published in: on gennaio 30, 2008 at 8:42 am  Comments (12)  
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Colui che spera

Torno sulla ricerca della perfezione, che è da sempre molla di spunto a spiccare il volo, molla necessaria e fantastica che mi permette di affacciarmi ogni giorno con uno sguardo diverso al circostante.
Le lingue e la loro mutabile perfettibilità, il loro fascino e la loro infinita potenza di rendere pensieri e concetti solo nel loro idioma puro, nella loro primigenia natura.
L’esperimento del Doktoro Esperanto* fu appunto un tentativo di racchiudere proprio tutte le bellezze ed imprigionarle in un idioma non parlato, non vissuto.
La partenza era meravigliosa: rendere la bellezza di tutti i fonemi per lo stesso concetto e racchiuderla in un fonema nuovo, simile, imparentato, comprensivo, accogliente e impronunciabile, anarchico nella sua diversità.
La resa assomigliò ad un accoppiamento in vitro.
Ad un bisogno di impadronirsi del volo dell’uccello rinchiudendolo in gabbia.
Eppure “colui che spera” era un buon inizio.
La purezza del linguaggio dei latini, l’immediatezza degli anglosassoni, la rudezza dei germanici, i suoni mozzi degli slavi.
Perché le lingue sono convenzioni e levare loro la convenzione per riconfezionarle poteva sembrare un esercizio di libertà.
Ma le lingue sono anche vite, irripetibili sensazioni rese perfettamente nella tradizione dell’idioma, con sfumature irraggiungibili in altre.
E idem non è come the same thing.
Nella ricerca della perfezione questa sosta curiosa può solo servire a proseguire la strada.
Le parole devono fluire nell’immediatezza dell’idioma che scegli per esprimerle.
Colei che spera si augura che non resti solo l’inglese. Nudo e povero, poetico solo nel to be or not to be.
Lezioni di esperanto.
Istruzioni per una speranza, una delle tante.
Uniformare non è mai la soluzione.

(E.)

* Zamenhof, padre dell’esperanto
per la musica: qui
Published in: on gennaio 29, 2008 at 8:30 am  Comments (25)  
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Tiepido

Non so come ma sorprende tutte le volte. Ieri sporgevo dalla finestra la mia maglietta e le mie braccia nude e sentivo sferzare solo per abitudine il freddo di gennaio. Eppure era morbido tempo di transizione.
Tempo srotolato, quasi scomposto, fatto di case intorno, di sogni accostati gli uni agli altri, di persone raggomitolate di domenica.
Questo tempo di oggi è lo stesso, che la sciarpa non si sa perchè l’ho messa.
Un tempo d’aspetto, direbbe fossati, un tempo comunque incartato in carta di giornale per portarlo con sé senza sentirsi in colpa, senza vederlo.
E non vedendolo fa meno paura che passi e che ti sfiori, che ti ricordi che batte e va verso la primavera, che la potatura dei rami è necessaria per ritrovare la forza, per rivedere i fiori.
Un tempo tiepido, come una brace che nasconde i tizzoni.

(E.)

c’è tempo – ivano fossati
Published in: on gennaio 28, 2008 at 10:12 am  Comments (17)  

Le stagioni della memoria

la foto è di Francesca Woodman

Ci sono memorie che ci appartengono. Memorie che ci raccontano di noi, di come siamo stati, di come volevamo essere, di cosa cercavamo. Quelle memorie anche se restano si cancellano quasi del tutto, restano schizzi di carboncino, che una ditata leverà. E ci sono memorie di cose mai viste. Come uno sguardo scoperto d’improvviso. Amato d’improvviso. Come se appartenesse a qualche pagina scritta o a un treno visto passare nelle fermate di questa vita.
Memorie e esperienze. O solo allucinazioni. Linee perfette disegnate sugli orizzonti o sul palmo di una mano, della mia.
Ci sono anche memorie di cose che non sono mai accadute. Che si beffano del nostro concetto di vita-contenitore. Volti o spazi non conta. Ma non li abbiamo mai visti. Memorie che ci attraversano, come un fascio di luce, scomponendoci senza rendercene avveduti.

Di qui ho iniziato un viaggio, tempo fa, sui percorsi della memoria. Una “visione uomo” del tempo e della memoria.

Credo di avere iniziato a scrivere sulla memoria per una sorta di ricerca di me stessa. La memoria è forse una delle cose che ci fa toccare la nostra non-corporeità. E a me, che non credo, ha sempre lasciato un certo imbarazzo afferrarla e sapere che non mi apparteneva in qualche modo o almeno non mi apparteneva più.
Poi i giochi strani che fa la memoria, sia quella degli eventi storici, a seconda di chi li racconta, sia quella delle cose spicciole che ci accadono, ha fatto in modo che cercassi dentro di me qualche risposta. Mi sono ritrovata con molte domande. E quasi tutte portano a soluzioni o risposte inspiegabili se non magari con una cabala o con un versetto di questo o quel credo.
Scrivere della memoria, specialmente quando spesso mi sono aggrappata ad essa per ritrovare sensazioni perdute, è emozionante, ma anche doloroso. Ci sono persone racchiuse in essa che fuoriescono scompostamente, senza controllo. In un flusso intermittente e imprevedibile.
Le dimenticanze poi. Specie quelle da cui derivano conseguenze spesso dolorose o preoccupanti, quelle non so proprio spiegarle.
Dimenticare di fare una cosa può spesso, e non è surreale, portare ad una catena di conseguenze, di concatenamenti che sfiorano l’inverosimile. Fino a farci immaginare la vita come una serie di conseguenze positive. In questa serie infinita iniziale, poi si incastrano altrettante negative che poi portano alla sua fine. Una fine che per molti è solo formale, ma per me resta l’unica fine conoscibile.
La memoria rende immortali, la perdita della memoria a volte può farci sentire invincibili. Spariscono le esperienze, anche quelle formative, e si rimane anarchici della vita, anarchici alle sue regole e ai suoi meccanismi.
La vergogna di non ricordare credo nasconda solo la paura di non avere passato. Un passato rassicurante o meno, ma pur sempre un passato che ci dica chi siamo e che cosa abbiamo fatto per trovarci dove siamo.
I dubbi sulla memoria storica, sulle sue interpretazioni. Sugli eventi che hanno caratterizzato il passato dell’umanità. Le guerre, le rivoluzioni. I mille dubbi che ci attanagliano e ci fanno credere (anche questa è pura fede) che quello che scrissero o dissero quegli uomini è vero o verosimile. Comunque l’unica spiegazione possibile o una delle spiegazioni che hanno condotto noi, memori-immemori, a tutto questo.
Mi sono chiesta mille volte perché si ricorda e poi non si ricorda più. La risposta scientifica non mi convince, quella sulle cellule che si distruggono. Perché la memoria o il ricordo sono bizzarri. Spesso chi dimentica smarrisce solo spezzoni di vita, momenti, ma poi ne ricorda lucidamente altri. Che selezione mai essa fa? E quale legge o quale funzione algebrica permette ad una immagine o ad un odore di vent’anni fa di riaffiorare e ad un pasto di ieri di essere dimenticato?
Ho anche azzardato ad attribuire alla mente umana una sorta di auto-conservazione, una ricerca spasmodica di ricordare solo cose che fanno bene o cose dette appunto “memorabili” e meno le altre. O comunque di rivisitare quelle meno belle o contrarie alla propria intima censura in modo tale che non disturbino il cammino verso l’oblio finale. Quell’amnesia assoluta. Che potrebbe essere anche uno stato vegetativo anche comodo per un corpo e una mente stanchi e non del tutto appagati dalle altre sensazioni.
Quale stupore nel riassaggiare un gelato, avendone dimenticato completamente al palato la sensazione ed il gusto.
Ma anche questa spiegazione non è scevra da contestazioni. Ne farei subito una io, in base alla mia memoria.
Non credo di dimenticare (o forse dimentico solo cose ritenute inutili, da memoria momentanea), ma alcune cose spesso le conservo. Le sensazioni che contengono esperienze forti le tengo dentro, le porto con me, faccio loro fare un giro spensierato. Per poi riprenderle e stupirmene ancora. Per come siano accadute e per come le abbia vissute. Quando non ho anche il dubbio di ricordarle nel modo giusto.
E poi ci sono le rivisitazioni. Tutti ne siamo vittime.
Ricordiamo una cosa esattamente nello stesso modo per decenni, convinti sia così, con quei sapori, quelle parole, quelle persone. Per poi accorgerci che non era così, qualcun altro ne ha immagine diversa, a volte completamente diversa.
E poi ci sono i revisionisti. Un po’ tutti forse lo siamo.
Quelli che si convincono che cose palesemente diverse stiano come pensano. Che basano le loro azioni su auto-menzogne diventate realtà. La loro.
Scrivere sulla memoria ed accorgersi che si scrive sul terrore di dimenticare. Sulla paura ancestrale di tornare indietro o essere assorbiti dal dopo. Un dopo che non conosciamo.
(E.)

da qui è partita una serie di racconti che non ho ancora terminato

musica

Published in: on gennaio 26, 2008 at 5:59 PM  Comments (18)  
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Scene da suq

Prendo in prestito indegnamente le parole di Montezemolo, per narrarvi dell’ennesimo capitolo dell’italietta che si scontra a suon di checca e gesti dell’ombrello.

Indegna son io in effetti perché almeno il suq era protetto da mura e fuori al massimo si sentiva qualcosa, ma non si vedevano spettacoli indegni come quelli che ci è toccato vedere.
Barbato:”Traditore”. De Gregorio: “Gli ha pure sputato”. B: “Non l’ho trattato bene ma non gli ho sputato”. Finocchiaro: “Una barbarie”

Cossiga: “Mastella e Barbato, per carità: salvate il soldato Rayan, e cioè il povero Cusumano, che rischia di morire nella trincea, avendo equivocato gli ordini del capo…”. “Magari – aggiunge l’ex capo dello Stato rivolto a Clemente Mastella – fatevi dare cinque Asl in più in Campania…”

Direi che l’IRAN rischia di essere un posto migliore.

E Montezemolo vada nei suq, che senz’altro della checca non gliela danno.

E. (colta da malore)

Published in: on gennaio 24, 2008 at 6:49 PM  Comments (23)  

Rane che sognano l’oceano

Voliera per umani – rami e fil di ferro – Giovanni Mauri – Monza

Dieci anni fa scrissi un pezzo con questo titolo.
Le emozioni erano diverse, mi nutrivo diversamente, mangiavo politica, pane e trincee. Erravo nel divenire e riconoscevo lo stato di mutazione in cui spesso al risveglio rischiavo di non trovarmi più.
Covavo l’intima consapevolezza dello zingaro di città, nomade dentro ma convenzionalmente legato ad una dimora, mentre nella trasformazione l’anima d’airone perdeva l’agilità del volo, smarriva l’istinto del mare, del cielo, della libertà.
Col tempo ho del tutto perso la fiducia nelle parole giustizia, autonomia, verità.
E ho sempre più occupato il mio corpo con la certezza dell’utopia di essere padroni di sé stessi, riconoscendo l’umano essere di galline, che degli uccelli hanno solo le ali atrofizzate.
L’umana natura di quadrupedi eretti che adoperano poche bracciate per attraversare il fiume, ma che non sanno cosa si nasconde nel fondale, quale paradiso o inferno stanno cercando di superare.
E, dopo lo spunto del Pigi Battista e del suo memorabile articolo “reati e disgusto” nel quale si scaglia rabbioso contro i bloggers, contro la necessità di gogna a tutti i costi , sono immediatamente diventata border line, sboccata e definitivamente condannata a soffiare sui miasmi del qualunquismo. Tracimo qualunquismo a tal punto che nonostante sia consapevole che tutti ci accontentiamo di surrogati che ci possano restituire l’illusione di poter contare, di poter alzare la testa ed essere visti, lì in mezzo agli altri, mentre tutto scorre intorno, nonostante cerchiamo di compiacerci, nella ricerca di questa natura che ci restituisce allo specchio solo presunti animali sociali, che della società e socialità hanno bisogno per essere, per contare e per respirare, ma che della solitudine hanno il loro spettro più grande, la loro aberrazione, nonostante tutto questo temo di non essere cambiata così tanto.
Anche se navighiamo in acque stremate e inspiriamo aria respirata più volte.
Anche se continuiamo a gracidare, sapendo che il nostro stagno non è l’oceano.
Non possiamo lasciare ad altri di decidere della nostra vita.
I film di solito li scegliamo.
Il resto è da scrivere.

(E.)

musica per le mie orecchie
Published in: on gennaio 23, 2008 at 11:00 PM  Comments (21)  
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Naumachìa

Giovedì lo scoglio del Senato. Veltroni “compatti senza subordinate”.
Vorremmo le coordinate allora.
Fra “balletti indecenti” e facce indecenti, dopo la ceppalomachìa e il garbage gate, arriva la battaglia navale!
Vorrei a questo punto alcuni chiarimenti necessari:
– che cos’è un governo di responsabilità e di conseguenza, a parte per andare in bagno, chi alza la mano al di sopra degli altri, nani inclusi, per professarsi responsabile?
– che punizioni corporali infliggereste a chi dice “I parlamentari non possono essere chiamati a rispondere delle opinioni espresse” (Giosué Bruno Naso, legale di Storace)?
– visto che si parla di capolinea per Prodi dall’inizio della legislatura, pensate sia tornato in deposito, abbia spento il motore e non lo sappia?
In attesa che Casini e Mastella tornino insieme che ci mancano le loro occhiate languide, ecco le coordinate:
G2 !
Colpito!
F2!
Affondato!
Un consiglio accorato: mangiate più broccoli, meno infarti ma in alto mare.

(E.)

suggerimento musicale necessario: qui
Published in: on gennaio 22, 2008 at 11:01 PM  Comments (19)  
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Light Tuesday

La mattina, fra il sonno e la veglia, quando ancora non sai che tempo farà fuori, se c’è luce o la nebbia ha cancellato tutto, anche il cortile, quando non ricordi chi eri la sera prima, per quel nanosecondo che è una liberazione, ecco, in quell’istante la vita irrompe tutta insieme, sputata fuori dalla stanza, come acqua sul viso immediata.
In quel momento apprendi che sei lì e ricordi tutto, senza poterci fare più niente, come se il risarcimento fosse scaduto.
Quelli sono i momenti in cui è il mondo esterno a rammentarti quello che hai lasciato prima di addormentarti.
E prende le forme più disparate. Il mio mondo del mattino è la radiosveglia.
Che racconta quello che è stato e quello che sarà con oroscopi e politica mescolati in frullato.
Ieri era quello che gli inglesi chiamano blue monday. Il terzo lunedì dell’anno, la giornata più triste. Motivazioni decadenti, basate sul fatto che le feste se ne sono andate e non ci si sente né carne per la brace né un pesciolino di scoglio.
Per me blue monday rimane altro, tuttavia se ci penso, ieri mentre mi industriavo per cancellare il resto del mondo e concedermi una serata di pace, ad un concerto per pianoforte di un giovane ucraino, poteva essere considerato un giorno del cavolo.
Ho appreso che le borse sono crollate tutte e che nessuna è riuscita a rimanere aggrappata.
Non è rimasto altro che guardarle rotolare mentre per il Martin Luther King day gli americani l’hanno scampata bella perchè sono rimasti chiusi, spernacchiando a destra e a manca, mentre Francoforte gemeva e Tokyo aveva le palpitazioni.
Pertanto oggi voglio creare, mi sento in vena, rinascendo come la fenice ancora un’altra mattina.
Oggi è un light tuesday. Un tiepido, lieve martedì dopo la tempesta.
Come il cielo che si asciuga dopo un bucato.
Buon martedì pastello.
E speriamo che basti.

(E.)

Published in: on gennaio 22, 2008 at 9:39 am  Comments (20)  
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Il tempo che ci attende

magritte.jpg
René Magritte – Il principio d’incertezza

Dopo un viaggio breve o lungo
di fretta o stanziale,
torno a me stessa,
al mio orecchio solitario
che chiede sempre la parola
per avere poi il diritto
di rimanere in silenzio.

Giungo di nuovo
al centro immobile di me,
da dove mai sono uscita
e come un orologio addormentato
vedo l’ora veritiera
contro quella immaginata.

Ed in quel punto, su quella lancetta
si vede la fessura del tempo
quella da dove non serve che muova
le cinque dita di una mano
per coglierne i dolori
o le necessità.

Ho compreso che non ho bisogno
di molte strade da percorrere,
né di tante sillabe esterne,
di tanti uomini o donne,
di tanti occhi per vedere.

Pare basti quel minuto
che si ferma e che precipita
per risolvere ciò che è rimasto inconcluso.
Non importa la tua perfezione,
né l’ansietà disseminata
in polverose direzioni.

Basta scendere a vedere
il silenzio che t’attendeva
e senti che ti arriveranno
le tentazioni dell’autunno,
tutti gli inviti del mare.
E tutto il tempo che ti resta.

(E.)

Published in: on gennaio 20, 2008 at 7:48 PM  Comments (12)