la foto è di Francesca Woodman
Ci sono memorie che ci appartengono. Memorie che ci raccontano di noi, di come siamo stati, di come volevamo essere, di cosa cercavamo. Quelle memorie anche se restano si cancellano quasi del tutto, restano schizzi di carboncino, che una ditata leverà. E ci sono memorie di cose mai viste. Come uno sguardo scoperto d’improvviso. Amato d’improvviso. Come se appartenesse a qualche pagina scritta o a un treno visto passare nelle fermate di questa vita.
Memorie e esperienze. O solo allucinazioni. Linee perfette disegnate sugli orizzonti o sul palmo di una mano, della mia.
Ci sono anche memorie di cose che non sono mai accadute. Che si beffano del nostro concetto di vita-contenitore. Volti o spazi non conta. Ma non li abbiamo mai visti. Memorie che ci attraversano, come un fascio di luce, scomponendoci senza rendercene avveduti.
Di qui ho iniziato un viaggio, tempo fa, sui percorsi della memoria. Una “visione uomo” del tempo e della memoria.
Credo di avere iniziato a scrivere sulla memoria per una sorta di ricerca di me stessa. La memoria è forse una delle cose che ci fa toccare la nostra non-corporeità. E a me, che non credo, ha sempre lasciato un certo imbarazzo afferrarla e sapere che non mi apparteneva in qualche modo o almeno non mi apparteneva più.
Poi i giochi strani che fa la memoria, sia quella degli eventi storici, a seconda di chi li racconta, sia quella delle cose spicciole che ci accadono, ha fatto in modo che cercassi dentro di me qualche risposta. Mi sono ritrovata con molte domande. E quasi tutte portano a soluzioni o risposte inspiegabili se non magari con una cabala o con un versetto di questo o quel credo.
Scrivere della memoria, specialmente quando spesso mi sono aggrappata ad essa per ritrovare sensazioni perdute, è emozionante, ma anche doloroso. Ci sono persone racchiuse in essa che fuoriescono scompostamente, senza controllo. In un flusso intermittente e imprevedibile.
Le dimenticanze poi. Specie quelle da cui derivano conseguenze spesso dolorose o preoccupanti, quelle non so proprio spiegarle.
Dimenticare di fare una cosa può spesso, e non è surreale, portare ad una catena di conseguenze, di concatenamenti che sfiorano l’inverosimile. Fino a farci immaginare la vita come una serie di conseguenze positive. In questa serie infinita iniziale, poi si incastrano altrettante negative che poi portano alla sua fine. Una fine che per molti è solo formale, ma per me resta l’unica fine conoscibile.
La memoria rende immortali, la perdita della memoria a volte può farci sentire invincibili. Spariscono le esperienze, anche quelle formative, e si rimane anarchici della vita, anarchici alle sue regole e ai suoi meccanismi.
La vergogna di non ricordare credo nasconda solo la paura di non avere passato. Un passato rassicurante o meno, ma pur sempre un passato che ci dica chi siamo e che cosa abbiamo fatto per trovarci dove siamo.
I dubbi sulla memoria storica, sulle sue interpretazioni. Sugli eventi che hanno caratterizzato il passato dell’umanità. Le guerre, le rivoluzioni. I mille dubbi che ci attanagliano e ci fanno credere (anche questa è pura fede) che quello che scrissero o dissero quegli uomini è vero o verosimile. Comunque l’unica spiegazione possibile o una delle spiegazioni che hanno condotto noi, memori-immemori, a tutto questo.
Mi sono chiesta mille volte perché si ricorda e poi non si ricorda più. La risposta scientifica non mi convince, quella sulle cellule che si distruggono. Perché la memoria o il ricordo sono bizzarri. Spesso chi dimentica smarrisce solo spezzoni di vita, momenti, ma poi ne ricorda lucidamente altri. Che selezione mai essa fa? E quale legge o quale funzione algebrica permette ad una immagine o ad un odore di vent’anni fa di riaffiorare e ad un pasto di ieri di essere dimenticato?
Ho anche azzardato ad attribuire alla mente umana una sorta di auto-conservazione, una ricerca spasmodica di ricordare solo cose che fanno bene o cose dette appunto “memorabili” e meno le altre. O comunque di rivisitare quelle meno belle o contrarie alla propria intima censura in modo tale che non disturbino il cammino verso l’oblio finale. Quell’amnesia assoluta. Che potrebbe essere anche uno stato vegetativo anche comodo per un corpo e una mente stanchi e non del tutto appagati dalle altre sensazioni.
Quale stupore nel riassaggiare un gelato, avendone dimenticato completamente al palato la sensazione ed il gusto.
Ma anche questa spiegazione non è scevra da contestazioni. Ne farei subito una io, in base alla mia memoria.
Non credo di dimenticare (o forse dimentico solo cose ritenute inutili, da memoria momentanea), ma alcune cose spesso le conservo. Le sensazioni che contengono esperienze forti le tengo dentro, le porto con me, faccio loro fare un giro spensierato. Per poi riprenderle e stupirmene ancora. Per come siano accadute e per come le abbia vissute. Quando non ho anche il dubbio di ricordarle nel modo giusto.
E poi ci sono le rivisitazioni. Tutti ne siamo vittime.
Ricordiamo una cosa esattamente nello stesso modo per decenni, convinti sia così, con quei sapori, quelle parole, quelle persone. Per poi accorgerci che non era così, qualcun altro ne ha immagine diversa, a volte completamente diversa.
E poi ci sono i revisionisti. Un po’ tutti forse lo siamo.
Quelli che si convincono che cose palesemente diverse stiano come pensano. Che basano le loro azioni su auto-menzogne diventate realtà. La loro.
Scrivere sulla memoria ed accorgersi che si scrive sul terrore di dimenticare. Sulla paura ancestrale di tornare indietro o essere assorbiti dal dopo. Un dopo che non conosciamo.
(E.)
da qui è partita una serie di racconti che non ho ancora terminato
musica