Torno sulla ricerca della perfezione, che è da sempre molla di spunto a spiccare il volo, molla necessaria e fantastica che mi permette di affacciarmi ogni giorno con uno sguardo diverso al circostante.
Le lingue e la loro mutabile perfettibilità, il loro fascino e la loro infinita potenza di rendere pensieri e concetti solo nel loro idioma puro, nella loro primigenia natura.
L’esperimento del Doktoro Esperanto* fu appunto un tentativo di racchiudere proprio tutte le bellezze ed imprigionarle in un idioma non parlato, non vissuto.
La partenza era meravigliosa: rendere la bellezza di tutti i fonemi per lo stesso concetto e racchiuderla in un fonema nuovo, simile, imparentato, comprensivo, accogliente e impronunciabile, anarchico nella sua diversità.
La resa assomigliò ad un accoppiamento in vitro.
Ad un bisogno di impadronirsi del volo dell’uccello rinchiudendolo in gabbia.
Eppure “colui che spera” era un buon inizio.
La purezza del linguaggio dei latini, l’immediatezza degli anglosassoni, la rudezza dei germanici, i suoni mozzi degli slavi.
Perché le lingue sono convenzioni e levare loro la convenzione per riconfezionarle poteva sembrare un esercizio di libertà.
Ma le lingue sono anche vite, irripetibili sensazioni rese perfettamente nella tradizione dell’idioma, con sfumature irraggiungibili in altre.
E idem non è come the same thing.
Nella ricerca della perfezione questa sosta curiosa può solo servire a proseguire la strada.
Le parole devono fluire nell’immediatezza dell’idioma che scegli per esprimerle.
Colei che spera si augura che non resti solo l’inglese. Nudo e povero, poetico solo nel to be or not to be.
Lezioni di esperanto.
Istruzioni per una speranza, una delle tante.
Uniformare non è mai la soluzione.
(E.)
* Zamenhof, padre dell’esperanto
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