nella foto la mia Bibi
I gatti prendono le abitudini, specie quelle cattive, in pochissimo tempo.
Basta una volta ed è fatta.
Immagazzinano orari, posizioni, postura dei piedi su cui strofinarsi.
Contengono tutte le informazioni e le reiterano.
I parallelismi fra uomini ed animali non li ho mai amati, ma stavolta lo prendo in prestito questo.
Giammai sentirmi un gatto. Per rispetto, s’intende.
Ma noi umani, con braccia e gambe, con un cervello pesante, tendiamo a prendere le abitudini.
Ci sono gli abitudinari cronici, quelli che vorresti strappare dalla solita routine in modo forte, per vederli con i loro occhi veri, quelli non da pilota automatico.
Ci sono gli abitudinari per comodità, i pigroni. Quelli che sanno esattamente dove è il pulsante del canale preferito o dove si trovano le calze appallottolate in fondo all’armadio ma non le afferrano mai. Se non quando chiedi loro dove sono finite. E a naso, in tutti i sensi, ci arrivano.
Ci sono quelli che le abitudini le ripugnano. Ma che ci nuotano dentro.
Orari, tempi, giorno, notte, sonno, veglia, supermercato, bollette. Quelli che il telefonino è una palla al piede ma lo hanno con sé per rammentarsi che debbono, che sono costretti ad essere.
Quanto ci si mette a pensare che una persona che abbiamo conosciuto stia lì da sempre?
Quanto ci mettiamo a darle le pantofole e le chiavi di casa?
Basta poco.
Eppure non ci pensiamo a quanto mondo abbiamo fatto entrare nella nostra abitudine scomoda.
A quanti divani, a quante sedie, a quanti balconi abbiamo fatto posto nel nostro monolocale.
A quante vite sbeccate, come tazzine usate dal tempo.
A quanti caffè ci berremo ancora.
A quanti sapori di caffè esistano al mondo, ma noi ne riconosciamo solo un paio.
E di solito quello amaro è il migliore.
(E.)