una panchina di Genova - Andrea Pompilio
Le panchine hanno una loro storia, dicono le prime parole fra le stecche di metallo, fresche di vernice odorosa, appaiono comode a chi ha le scarpe strette, a chi cerca refrigerio nell’angolo in ombra. Spesso affiorano, come foglie su uno stagno, quelle che hanno avuto un senso, le panchine amate, quelle dimenticate, quelle sotto gli alberi, quelle al sole, quelle di fronte al mare.
Una panchina a Villa Ada, a Roma, accanto ad un albero molto alto, col tramonto rosato di un giugno modesto, con i bonghi in sottofondo. Un libro di compagnia o un bacio rubato con un vestito leggero.
Le panchine dei boulevards di Parigi o di Montmartre, le panchine su cui finivo, sfinita, dopo lunghe camminate a scrivere le parole nuove che avevo imparato, il senso dei silenzi e delle pause fra di loro.
Quelle di Stoccolma al Djurgården, davanti ad un mare increspato di ottobre, con i colori caldi dell’autunno e le cuffie nelle orecchie.
Panchine dimenticate e solitarie, nascoste sotto rientranze che non vedi, cucite fra il verde e il muro, di legno masticato dal vento e dalla pioggia, vuote e ospitali, riparate ed esposte.
Ci sono luoghi che non ti aspetti, congelati nella memoria o svaniti ma pronti a tornare, arrampicati sulle stecche di legno sino in cima. E ci sono panchine sbocciate come fiori nei ricordi di fotogrammi. Le panchine dei film.
La panchina di Sweet November sulla quale ho versato due lacrime silenziose, una panchina non usata, lì sullo sfondo di un’alba di commiato, quella di Monty della 25a ora, quella di fronte all’Hudson, sempre all’alba dell’ultimo giorno concesso, muto, intenso, immobile. La panchina di Will Hunting, di quelle che ricordi le parole una per una, perché “sei solo un ragazzo, tu non hai la minima idea delle cose di cui parli”.
E le panchine di saluto, dolenti come quelle di Dostoevskij, belle e profonde come un ultimo respiro prima dell’apnea o dell’oblio, prima di finire tutto e tornare a casa. Le panchine di Amburgo, che suonano nelle parole di Capossela. Esilio e nuvole, dice. Che pare raccontare della panchina di Beckett, quella dove conosce Lulu e dove va a cercarla poi per ritrovarla. Panchine all’alba o al tramonto, panchine di passaggio, indecise. Fra il buio e il giorno. Fra i desideri e le stagioni. Che corrono veloci davanti a loro, corrono per arrestarsi sulle foglie cadute, per poi volare sbattute dal vento. Panchine di sostegno. A ricordi.
Ho prenotato una sosta alla Feltrinelli questo sabato. Se piovesse non sarebbe grave. Comprerò libri. Per panchine.
(E.)
p.s. sotto la foto due canzoni: Amburgo e Fatalita` di Vinicio Capossela