installazione alla fine di calle Prado sul Malecon – L’Avana
Quattro anni, vestitino rosso, cappottino caruccio, forse troppo, calze non pervenute, chissà perchè, eppure a Bologna il freddo c’è.
Piazza San Francesco. Trattoria vicina.
Si abita fuori Bologna, sui colli, verso Imola. Casale di legno, tanti ragazzi e bambini, pochi adulti arbitri, alcuni anche poco svegli.
Dicevo di Piazza San Francesco. Come se fosse presente, al presente.
Intorno tanta gente, molti, tutti giovani, bambini pochi, credo solo io e la mia sorellina di tre anni.
Si cammina e si canta. Si guarda la mamma giovane e bella nei suoi jeans e nel suo poncho che canta. L’internazionale. Si cerca in mezzo al fumo di scorgere altri volti amici, qualche Piero o Giovanni, qualche Maria o Elisabetta, non so, pilastri di sicurezza in una marea di estranei, che pare una festa.
Il rumore è assordante, c’è chi ha i bastoni e li batte contro qualunque cosa, c’è chi fischia, c’è chi urla contro il potere, così dice la mamma, c’è chi canta ancora e ancora cose incomprensibili, parole che si affastellano confuse nella mente ma restano se si chiudono gli occhi, la sera, sotto un tetto di travi a vista in mezzo al nulla lì fuori.
Fischi di molotov, fumo che pare di stare davanti al camino acceso, solo che in questo caso non c’è la Rosa che pulisce le patate e canticchia qualcosa che sembra allegro.
C’è solo fumo, mia sorella che sta muta, non parla ancora, chissà perchè, e io che faccio tante domande. Che afferro qualche parola smozzicata nella folla e chiedo: “Ma perchè vogliamo la casa, se noi la casa ce l’abbiamo?”.
Risposta non pervenuta, confusa nel rumore, o confusa nella memoria.
E si cammina, ci si ferma a Via del Pratello, si prosegue verso il centro, i ragazzi dell’università sono con noi, si va. C’è anche qualche fotografo, sparso, ci sono ragazzi con cartoncini disegnati che non si capisce cosa ci sia scritto sopra. C’è tutto un gran caos che il freddo non si sente più, si canta e io scimmiotto i grandi, canto come se fosse la canzoncina della scuola. Che all’asilo mi scappa anche di cantarla e la gente non so perchè mi guarda strana e sorride. E io che penso di essere furba.
Si prosegue, i portici sono stracolmi di gente, si sente qualche sirena, si vedono da lontano divise scure, alcuni fuggono, fuggiamo anche noi, sembra mosca cieca, il centro della strada resta vuoto in un baleno.
La ressa sui bordi, le stradine interne ingolfate di ragazzi con le sigarette in bocca.
La mamma deve andare, ci lascia con Elisabetta o un nome simile, deve andare a Radio Alice. Si trasmette, si deve raccontare che sono arrivati e hanno colpito a muso duro. Mi sembra di capire questo da quello che bofonchia a qualcuno.
La vedo sparire nelle stradine, io la seguirei, lei dice che sono sveglia, che capisco, ma la sorellina ha le mani fredde e guarda il cielo come se non l’avesse mai visto. Tocca restare con lei.
Il mondo è all’inverso. Lei cammina a testa in giù, pare, quindi la prendo per mano, cammino ancora, con la tizia con cui siamo che continua a parlottare con chissà chi, con un barbone scuro che pare mio padre.
Si va verso la corriera, si torna verso casa allora.
Riconosco la strada che porta alla fermata, la ottocento di mamma è parcheggiata sotto casa, siamo uscite presto ieri mattina ma senza macchina.
Si torna a casa, allora, ieri sera eravamo in un posto grande, stanzoni enormi e ragazzi con un fuoco improvvisato. Non so leggere bene, non so che cosa ci fosse scritto su quell’edificio, ma dicevano che era una caserma. Una caserma occupata, adesso che ci penso.
Stavolta si torna a casa, se siamo fortunati sentiamo anche la mamma alla radio con Enrico e i ragazzi che saranno senz’altro a casa. Loro non vengono a fare queste cose.
Loro cantano, loro guardano la mamma e pensano che sia bellissima, sono giovani, tanto giovani, la mamma invece ha più di vent’anni e i suoi capelli corti sono diversi dalle altre.
Magari usciamo anche in bici, se c’è ancora luce, mi metto sul cestino come sempre e Gioacchino pedala. In mezzo al silenzio, intorno al laghetto coperto di ghiaccio.
La corriera procede lenta, la gente dentro parla, racconta, si lamenta. Qualche vecchietto legge il giornale e vuole si tacciano tutti, sorbole! Ma continuano a parlare, anche la Betta parla, sempre col tipo con la barba e con altri che non ho mai visto.
La mamma tornerà mi dice uno di loro, io annuisco, ma non glielo avevo chiesto. Lo so che torna, c’è il bucato da fare, mi sembra.
Il mondo va al contrario. Sono a testa in giù io adesso, guardo il tetto della corriera e dietro la strada che corre.
I mondi possibili non li conosco, conosco questo ed è bellissimo, ci sono tanti ragazzi e la mamma torna.
Scendo e vedo la casa, da lontano. La Betta ci lascia ad Enrico, che con i suoi occhi dolci ci accoglie e ci dà qualcosa di caldo, mentre la Rosa è in cucina e si sente un profumino niente male.
Stasera ruberò un goccio di vino a tavola, la mamma ha detto che non devo farlo, ma è così buono. Tanto, solo per sentire il sapore.
La radio è accesa, si sente la radio, ma è un’altra stazione, uno dei ragazzi cambia e c’è della musica, poi ancora e c’è Radio Alice. Dico tronfia ad Enrico che la mamma è lì e che oggi eravamo insieme. Lui scuote la testa e non capisco, ma poi torna a sorridere.
Angelo, uno dei ragazzi, corre lungo il corridoio, fra poco si cena, niente bici.
La radio parla lingue strane, non capisco un tubo, e quindi canticchio.
Canto sempre quando fa freddo.
E anche quando mi nascondo sotto il tavolo con mia sorella per fare una sorpresa alla mamma quando torna. Ma lei mi sente e mi scova subito.
Torna, fra poco torna.
(E.)