A ognuno la sua rivoluzione

“Nelle epoche rivoluzionarie, coloro che si attribuiscono con un così strano orgoglio, il facile merito di aver sviluppato nei loro contemporanei lo slancio delle passioni anarchiche, non si accorgono che il loro deplorevole trionfo apparente è dovuto soprattutto a una inclinazione spontanea, determinata dal complesso della relativa situazione sociale” (Auguste Comte, Corso di filosofia positiva)

Il relativismo delle nostre percezioni, ci fa sembrare ogni piccola conquista come un meraviglioso traguardo, ci fa sentire pionieri e fieri.

Nel deserto delle emozioni, nella mercificazione dell’immagine come fosse unico strumento per dimostrare la propria esistenza, nella assoluta massificazione dell’individualismo spacciato per community, nel sotterramento delle piccole grandi conquiste sessuali, culturali, sociali fatte passo passo nei decenni passati, dopo la grande depressione per l’essersi scoperti soli nel collettivo e dopo la trasformazione di questa solitudine in una moltitudine di parole senza volto, senza paternità e senza attributi, il senso della rivoluzione muta.

La rivoluzione diventa sottolineare la libertà. Sessuale, culturale, ideologica. Evidenziare col pennarello, per poi dimenticarsene nell’essenza. Come se la parola bastasse a ripulire tutto.

Coscienze e significati.

Dopo il clima intellettuale di masochismo e depressione degli anni ottanta, reduci dagli anni settanta di stregoneria e di superstizione, dopo l’euforico edonismo di cancellazione, dopo un ventennio di silenzi di messe in piega e di estetico annullamento della propria identità, conosciamo il torpore della rivoluzione.

Delle rivoluzioni che hanno creato a tavolino come fossero sempre state così.

Confezionate con una bella scatola ammiccante, nello scaffale del supermercato sotto casa.

Liberi di farci tristemente gli affari nostri, di fare la rivoluzione sessuale a patto che mio figlio non baci il compagno di basket.

Nemmeno la violenza, l’illegalità, il malcostume ci indignano.

La rivoluzione cibernetica ci fa firmare una petizione per dare banane fresche alle scimmie del Madagascar.

(E.)

Di tre quarti

photo by ELIGIUSZ LANGNER

La durezza delle cose.
Che a volte paiono meno dure, capisci che lo sono solo quando ci finisci contro.
Entrare placidi in acqua, lasciarsi fluttuare, quello dovrebbe essere il senso.
Solo che nell’acqua trovi pesci di tutti i tipi, per non parlare delle chiazze di petrolio, delle mucillagini e delle cose che non si vedono, che sono le peggiori.
E allora vien voglia di tuffarcisi a muso duro, per non pensare, tapparsi il naso come fanno le bambine nella piscina dei piccoli, e prendere il muro d’acqua tutto davanti.
Che se sopravvivi forse dall’altra parte ci arrivi.
La durezza delle cose.
Dei silenzi, delle parole.
Delle cose raccontate, che quelle fisiche le puoi tastare, le puoi vedere come sono fatte.
Dei simboli quindi.
La durezza dei simboli.
Quanto contenuto inutile e doloroso, quanta storia buttata a marcire come fiori impresentabili dopo una settimana in un vaso.
Contenuto.
Esserci dentro e non volerci stare.
Nel contenuto.
Che il contenuto degli altri non ci calza mai a pennello, è come un vestito di anni fa, che sappiamo un giorno poteva andare, che la giovinezza rende ogni straccio una meraviglia.
Ma adesso resta uno straccio.
E volere essere forma.
La forma di una bicicletta, snella e indipendente.
Ma anche le forme, da sole, non vanno da nessuna parte.
(E.)

Tempi di posa

Ci sono istanti che paiono interminabili strazi.
Come il tempo di posa del balsamo sotto la doccia.
Che durano un mattone di tempo e invece si vorrebbe una finestra per volare via.
Ci sono attimi che volti lo sguardo per poi riposarlo e sono passati anni.
Senza nemmeno una fotografia.
Come tempi muti e senza volto, come tramonti senza che nessuno possa salutare.
Chi parte e chi va.
Io resto, almeno così pare, resto che pare non ci sia nemmeno per quanto faccio piano.
Ho chiesto al tempo di essere benevolo, mi ha risposto che l’unica cosa che può darmi è altra pazienza di starmi a guardare.
Tanto non lo trovo. Si è nascosto bene.
Mi hanno portato via tutto, questo posso dirlo.
L’ironia non tutta.
E con quella mi metto in posa, vediamo se lì il tempo viene nel suo profilo migliore.
(E.)

Life dangles your dreams in front of you

photo by BNCTONY

I calci in faccia servono.
Tocca saperli prendere, reagire quando concesso, ma soprattutto saperli incassare.
Ingoiare il dolore che viene e pensare che i barbari veri non li riconosci.
Sto leggendo un libro, un libro da compagnia, di quelli che ti illudono che il tempo ci sia, sei solo tu a non vederlo, perché si nasconde bene.
Leggo di barbari, in un tempo di barbari.
Paesaggi infreddoliti, relazioni accennate ed appannate, nascoste da silenzi interminabili e da pensieri quotidiani.
Mi sembra sempre di leggere non per caso i libri o forse mi accuccio in loro cercando parole che aprano porte.
E paesaggi, ancora, luci fioche e tempo smarrito.
Dondola la vita e i sogni. Dondolano senza un ritmo preciso, fra dita che si muovono e sorrisi che non sanno di verità ma di abitudine.
Dondola, e come con i bambini che non prendono sonno, serve a ipnotizzare.
Come se per affrontarla serva un po’ di oblio.
O è soltanto un periodo sbagliato e il mondo ha messo una benda sugli occhi per non vedere dove le rapide lo stanno portando.
Dondola.
Che.
Quasi quasi.
Mi addormento.
(E.)

Published in: on marzo 3, 2010 at 10:59 am  Comments (16)  
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