Specchio d’acqua

la foto è di pneumeric, sotto vi prego di guardare ed ascoltare tryo “toi et moi”

Lo sguardo non è lo specchio dell’anima.
È l’anima stessa che si apre al mondo, nuda scalza e indifesa.
Attraversa questo mondo porco e bastardo.
È un attraversamento della realtà. Un transito terrestre.
E per chi pensa sia tutto qui e che l’anima svanisca come la carne in un attimo, lo sguardo rimane comunque effimero, un soffio da cogliere, un guizzo di passaggio.

Correre coi propri piedi e guardare le proprie piante nella corsa.
Il mondo che si specchia, il proprio mondo, mentre tutto il resto non si vede più.
Mentre per strada nessuno ti guarda e potresti morire adesso, o magari lo hai già fatto, e nessuno lo vedrebbe.
Con gli occhi spenti. D’acqua e di nuvole.
Scivolare.

(E.)

Published in: on settembre 30, 2008 at 9:52 am  Comments (15)  
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Cocktail

la foto è di cricri, sotto etienne daho – mon manège à moi

La costa azzurra ha spolverato fuori il migliore fine settimana le potesse venire.
Nuvole e sole su onde come squame di pesce su un tavolo di una pescheria di lusso.
Carne e sangue sotto un sole bugiardo, con turisti a passeggio e villaggi invasi, come in una delle piaghe d’egitto.
I bambini in rotolo, come di carta assorbente, sfuso lungo il giardino, alla rincorsa di gatti e di millepiedi, atterriti dalle api ancora operaie dalle ali ancora asciutte e pronte a planare sulla tavola imbandita e a farli fuggire come dopo il click di una granata.
Il mare, poi, fiero, assiepato di barche d’ogni dimensione e i capelli al vento lungo la costa, a far la danza sulle onde su e giù, come seguendo una musica.
E poi i discorsi senza senso, senza filo, seguiti dietro ad occhiali da sole a mascherare troppo sonno, troppo vino e troppe parole inventate, come quella del mare increstato, che la risposta migliore è chicchirichì.
E se i figli fra una partita di ping pong e un paio di capriole, improvvisano un ballo da ventenni scosciate, che fa, le veline del futuro, in fondo, possono benissimo essere qua.
Ho il mal di gola, a me le barche piacciono, ma in solitaria.

(E.)

Published in: on settembre 29, 2008 at 9:40 am  Comments (11)  
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La gueule de bois

la foto è di B C N T O N Y, sotto Kung Fu Panda

Sfuocato, come il congresso americano.
Buio, come la stiva di un aereo.
Falso, come un biglietto da centocinquanta euro.
Arrivato, come il sistema capitalistico.
Cancello con le dita il segno che ho lasciato con il bicchierino del caffè, il sole compare distratto, come se lo avessero chiamato, ma fosse stato preso dalle nuvole in rincorsa e dalle ombre dentro un cortile dimenticato.
Attraversare le sbarre pare un’impresa, per chi sa di averle.
Per il resto del mondo è un altro venerdì.
Vado a sbronzarmi oltralpe, che più storditi di così si muore.

(E.)

Published in: on settembre 26, 2008 at 9:22 am  Comments (20)  
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Prenditi la vita che vuoi

“Perchè anche la persona migliore pare che nasconda sempre qualcosa agli altri e non ne voglia fare parola? Perchè non dirsi subito, sinceramente, quello che si ha nel cuore, quando si sa che non è al vento che diciamo le nostre parole? Invece abbiamo tutti uno sguardo come se fossimo più severi di quanto non lo siamo veramente, come se tutti avessimo paura di offendere i nostri sentimenti, nel caso venisseri subito rivelati”.
Questo nelle notti bianche di Fedor e anche nelle notti bianche di chiunque se solo si riuscissero a mettere le parole in fila in quel modo.
Il tempo costruisce barriere, non le abbatte.
Il tempo ci cela, chè ci pare che possa essere necessario farci questo regalo.
E diventiamo pacchi da scartare.
Solo che non ci ricordiamo di metterci su il fiocco e allora ci si passa di fianco pensando sia tutto lì.
Quello che abbiamo da dare.
(E.)

sotto la libreria damien rice – the blower’s daughter
Published in: on settembre 25, 2008 at 8:42 am  Comments (32)  
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Vaccarella da mungere

la foto è di lilya corneli, che è un consiglio alternativo, sotto, dall’album terra di nessuno, un consiglio musicale e non solo

Non serve a niente che ne parli anch’io. Specie per via del fatto che spesso le parole contano davvero meno che niente.
Inutile affannarsi per dare un peso importante a radici, significati, desinenze, inflessioni, pronunce, lingue, di carne o di lettere.
Sono i danari ad avere la vera importanza.
Tutto il resto è un contorno, più o meno scotto, più o meno saporito.
Riscaldato o fatto al momento.
Il menu di oggi consiglia: non mangiate cose molli, nè biscotti, chè di questi tempi non si sa come son fatti, evitate i salatini che viene subito sete e ovviamente il latte, ma che ve lo dico a fare?
E se passa l’hostess, chiedete un succo d’arancia, che fa bene, che il caffè a bordo è sempre osceno.
Vi ringraziamo per aver volato con noi e buona permanenza.
(Ah, e le mani bene in vista!)
(E.)

Published in: on settembre 24, 2008 at 8:58 am  Comments (18)  
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U

in attesa dell’alba -foto di claudio parente, sotto, glenn gould

Stringo fra le dita il primo caffè, la notte non ha portato consiglio, è stata turbolenta.
Questo giorno si srotola piano, è mattina da ore, pare, e il cielo ha lo stesso colore, ingiallito da un sole scolorito, di ieri.
I camionisti fumano negli angoli dei capannoni, gli aerei volano, ancora per un po’.
Il custode risponde al saluto per educazione, gli rode che una volta gli ho fatto aprire il cancello prima del tempo, per poter uscire.
E che il suo camper deve stare fuori dal cortile.
Mentre i parcheggi aziendali sono vuoti.
Lo spreco lo irrita, si vede.
Chiudo la finestra dietro al mio schermo.
E metto su Goldberg Variations. Che mi racconta la storia della perfezione del suono. O almeno una delle sue versioni.
Questa storia profuma come questo autunno, una storia di un uomo insolito ed eccentrico.
Un uomo che cantava mentre suonava e nelle incisioni si può ancora sentire la sua voce.
E che diceva che le incisioni erano un concerto senza sale.
Eppure quel concerto sciapo fu quello che ce lo fece conoscere.
Vi regalo Glenn Gould, che era d’oro al secolo ma essendo sciocco, come il pane toscano, aggiunse una u, chè una u in più non si nega a nessuno.
(E.)

Published in: on settembre 23, 2008 at 9:29 am  Comments (24)  
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Privazione di stelle

soffiando sotto la foto di ziobudu la canzone di paolo benvegnù

Il dolore più forte e più vero è quello che vive in silenzio, quello che non urla e che non strepita.
Dall’alto le città possiedono il silenzio, nessun turbamento le sfiora.
Atarassiche.
Le città sembrano atarassiche, eppure sono attraversate da un mare di roboanti macchine ed esseri vocianti.
Eppure dentro le loro case si consumano drammi inenarrabili, colano sangue e lacrime.
Ma il dolore, quello corale, quello sommato e moltiplicato, del cielo, dei fiumi, degli alberi, degli uomini, non fa rumore.
Come la girandola dei colori tende al non colore, anche il frullo di lamenti cancella loro stessi.
E dall’alto si vede la terra. Silente.
Che non è stella.
Ma che possiede il desiderio. Che delle stelle è privazione.

(E.)

Published in: on settembre 22, 2008 at 9:38 am  Comments (21)  
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Se ne dicon di parole

cacciatore siberiano - foto di giuseppe tornatore - proprietà dell'archivio fotografico italgas di torino

sotto la foto la musica

In lingua inuit, la lingua dell’artide, si scoprono meraviglie inusitate.
E questo venerdì lo voglio dedicare alle parole e soprattutto all’uso che se ne fa, a volte immediato, non soffermandosi spesso a capirne il significato o l’accezione.
Leggende metropolitane e trovate giornalistiche vogliono che ci siano miriadi di parole che vogliano indicare, proprio in quella lingua così lontana e sintatticamente diversa dalle nostre più comuni, la parola neve.
Ma le leggende mi piacciono, specie quando non fanno male ad una mosca.
Specie quando nessuno rimane deluso da una realtà diametralmente opposta.
Più di quaranta parole diverse per la neve e nessuna per la guerra.
Gli inuit non cercano risposte dal destino o dal futuro, vivono nel presente, questo vuole la loro tradizione, che poi li porta anche ad una sorta di megalomane convinzione che siano il mondo intero. Nessun compito trascendentale, nessuna ricerca del dopo, del domani, della vita di altri mondi. Il mondo è qui, si tocca, prende le forme della neve, dei volti scavati dei loro uomini e donne.
Lì le stelle sono più vicine eppure non credono, non credono se non nelle loro mani.
E chiamano le stagioni con parole usate per verbi, come la stagione in cui il mare ghiaccia, la chiamano “ascoltare”, perché sul ghiaccio si può scorrere e viaggiare verso i villaggi vicini e sapere, conoscere, ascoltare ciò che intorno accade.
E sopra sempre le stelle, vicine che si possono toccare in quel buio e da quella visuale privilegiata.
E il sole che per loro è donna e la luna, che è suo fratello, uomo, durano tanto, mentre da noi il giorno resta uomo nel sole e la notte donna nella luna e non facciamo caso alla benedizione di poter scorgere una luce di stella. Ché il mondo appare illuminato, a noi che conosciamo la guerra e che diamo un genere maschile a chi ci dà la sveglia.
E chiamiamo ordine ciò che la natura chiama forza e cemento.
(E.)

Published in: on settembre 19, 2008 at 8:05 am  Comments (22)  
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Passato in affitto

la foto è di davide olivi

Non so se nella vita di tutti c’è un Enrico.
Nella mia sì, barbuto, con un sorriso stampato che quando ci penso mi viene subito un sorriso di rimando.
C’era la campagna intorno, una di quelle da film, con un casale, con gli animali, con il vento sferzante e il gelo tagliente. Se ci penso sento ancora il freddo, mi battono i denti, mi viene da toccarmi il naso con la lingua per scaldarlo, che mi viene ancora bene.
Sospiro pensando ai cestini di biciclette che hanno conosciuto le mie natiche piccine, contornate da vestitini leggeri, alle serate di caminetti accesi e di bambini vocianti che hai voglia a dire loro di stare zitti, che c’era il varietà alla tv.
Quella casa conteneva generosa tutte le voci, urla di gioia strozzate da giorni interminabili, che spesso pareva fosse sempre notte e sempre inverno.
Le ruote sull’erba e il cielo muto, i cuori affannati di bambini troppo distratti per fermare quei momenti.
Nomi dimenticati, come fossero sfollati in un casermone in attesa di identificazione.
Eppure eravamo noi quei bambini e i grandi non facevano testo anche quando dicevano che era ora, che toccava andare a letto, che si era fatto tardi. E anche se le dita gelide desideravano una coperta sotto la quale scaldarsi, c’era la vita lì, fuori dalle coperte e c’era Enrico, che col suo sguardo faceva anche scordare l’ennesima marachella, che in silenzio radiografava i pensieri e restituiva solo una delle sue battute in bolognese, smozzicate, ché non si sentisse troppo.
Per anni quel fragore è rimasto confuso come i panni dopo la centrifuga. Squassato dal tempo e dalle altre facce, ma in quell’angolo, come se quello fosse suo e nulla potesse portarlo via.
E ci sono tornata, con una timidezza quasi da scolaretta, timorosa che nessuno potesse ricordare.
E ci ho trovato le foto della mia infanzia, immagini che non sapevo di avere popolato.
Quadretti di famiglie inventate e posticce che per anni sono stati la mia, quella che mi ero creata, nella fantasia.
E lui mi ha riportata in quel posto, che ricordavo immenso, pieno di verde e di legno, come se il resto dei materiali si fossero dimenticati esistessero al mondo.
E ho trovato un cancello in ferro battuto, un muretto, che forse c’era sempre stato, e tanto silenzio. Come se nessun rumore si fosse mai udito.
Due livornesi dentro, una coppia matura di signori, che mi hanno permesso di rivedere quelle stanze, che ricordavo in altro modo, calde e con profumo di cucina dovunque.
Ho trovato un’altra vita dentro e il silenzio mi raccontava di quell’uomo che mi accompagnava in quelle stanze, con le lacrime agli occhi.
Enrico, che è anche un pezzo di me, che possiede gli anni in cui le fantasie erano le uniche regine dei miei giorni. Regine che sono state spodestate.
Da giorni prima e dopo. Senza corona. Vendute per poche lire.
(E.)

Published in: on settembre 18, 2008 at 8:53 am  Comments (19)  

Spremuta d’attesa

la foto è di hummyhummy

Nel giorno che verrà ci sono promesse, desideri, solidità.
Domani non da certezze, chi vuol esser lieto sia, e la beffa del carpe diem.
Una beffa, una di quelle raccontate per giustificare ogni ignominia, ogni pulsione irrefrenabile e ogni rigurgito.
Ci sono cose irrimandabili, cose da cui non ci si sottrae, cose immarcescibilmente decisive.
E da quelle tocca fuggire, prima che sia troppo tardi.
Le altre le attendiamo.
Con tutta la magia che possiede un universo scientifico, fatto di successioni e di tempo. Inconoscibile ma prevedibile, con cadenza statistica e monsoni regolati e tempo bastardo o tropicale.
Attendere, perché quando aspettiamo quella cosa sappiamo che accadrà, quindi siamo un po’ profeti, e in più la coloriamo, la orniamo come fosse l’unica al mondo.
L’unico respiro che ci sia concesso.
(E.)

Published in: on settembre 17, 2008 at 7:52 am  Comments (13)