…alle volte un fuori luogo, un fuori forma, un fuori misura, un fuori pista, un fuori tempo. È che il desiderio di un mandarino fuori stagione, come quando comincia l’estate, e ce ne vuole ancora, é…Incollerei anche il profumo
Jupiter crash
Ci sono altalene di pensieri che possono fare meglio di una carezza, di un sorriso, di un bacio di Ospedaletti incartato nel cellophane.
Quando anche Giove vacilla e si sfalda come polvere, quando il silenzio sarebbe la migliore cura per ogni cosa, mancata, sperata, dannata. Ecco allora in quel momento arriva una mano a prenderti e trascinarti via.
Prende un lato del maglioncino, su cui si posa il riflesso del sole che filtra dalle veneziane e vola.
Come morire dimenticati.
Sotto macerie o dentro a un pozzo.
Spegnere il cielo e sfidare il buio.
Ho smesso di scrivere. Il tempo ha ingoiato le mie parole inutili, quelle che non producono danaro o che non sono necessarie a salire sull’autobus, a chiedere un caffè, a fare reclamo con la compagnia telefonica.
L’inutilità in effetti si è impadronita della mia vita. Ho come l’impressione che tutto questo affannarsi quotidiano non abbia senso alcuno. Danzare sarebbe meglio, non guardare il proprio volto sfiorire sarebbe meglio, viaggiare sarebbe meglio, non sentire più la propria voce seria sarebbe meglio.
E ho smesso. Un giorno, senza preavviso ho smesso.
Che si taglia in questi anni, si tagliano i servizi, mi hanno appena tagliato l’autobus che mi porta al lavoro. Senza preavviso, da lunedì.
E io ho tagliato.
Ho spento il cielo.
(E.)
Ho paura quando ho freddo
la foto è mia, ieri, parco
In quei momenti interminabili e unici, quando niente può entrare e niente può uscire, nessun sussurro, solo gli uccelli e due pagine di un libro letto all’imbrunire finchè gli occhi possano distinguere le lettere, sulla soglia del balcone, in un tempo senza tempo, tornano sapori non ascoltati o fuggiti per troppa fretta di arrivare e non si è arrivati, non ci si è mai fermati. Momenti di magliette verdi, rubate su un letto, mentre storie di solitudine si srotolavano in case che non ci appartenevano. E quella maglietta verde, che abbiamo indosso, è l’unica cosa che ci ricorda che quei momenti ci sono stati e che li abbiamo sprecati. Ad ascoltare i rumori della tangenziale rombante, in quella casa dove non siamo più stati. Col caldo che stava arrivando e le speranze che avremmo fatto questo o quello. E poi scendere in strada in un giorno qualunque e rivedere volti dimenticati, rumori tappati come bocche che dicono troppo e dovrebbero tacere. Alzarsi sulle punte delle scarpe e sentirsi felici per un attimo. E ricordare quella felicità fatta di nulla. Perché è il nulla che ci strappa un sorriso, il pieno ci ingolfa, ci leva il fiato. E ricordarsi di amare come quella volta, di essere ancora l’involucro che raccoglie tutti quei sogni, quelle corse coi piedi di rugiada in un giardino qualunque. Ricordare che dentro quella maglietta verde, con un buco ormai, vestita come si veste il silenzio di ciò che non abbiamo saputo trattenere, c’è sempre quel sogno, quel canto per sconfiggere la paura e il freddo. Anche se il freddo in sere come queste è un frullo di uccelli e un rumore lontano della strada. Che c’è ma non si vede. (E.)Colza e vento
Immagini sfocate, tutte insieme, come se fossero giunte da un luogo nascosto della mente e si affannino tutte a volere uscire, ma lo fanno in modo confuso, come dopo una sirena dentro ad un luogo chiuso.
Come se non ci fosse più tempo per fermarsi e necessitassero tutte di prendere aria, di avere respiro, di dissolversi nel mondo, cui appartengono, necessariamente.
Prati di colza, stesi a coprire nudi panorami anonimi. Volti nascosti di donne per strada, con occhi fieri e sereni e nessun silenzio che tu riesca a leggere fra quelle ciglia. Nel fruscio delle vesti, nel rumore delle mie suole, che colpiscono lo stesso marciapiede, alle stesse ore, e spesso incrociano gli stessi occhi. Cui viene quasi naturale sorridere.
Rassicura la vita comune.
Allontana, penso, dalle brutture e spesso confonde da esse, trasformandoci in esseri di passaggio, in attesa giunga un nuovo orizzonte da guardare.
Come se bastasse sperarlo l’orizzonte per farlo arrivare.
E tutte queste immagini eccole danzare, davanti ad una giornata come le altre, una di tante, cui ne seguiranno altre ancora. Ed è sempre vento sotto ai vestiti, sempre vento fra i capelli e sempre vento che accarezza e cancella ciò che non potremo vedere.
Quelle cose che ci siamo persi, per strada, in questo giorno, fuori, a casa, sotto al letto, fra i vasi del balcone.
Tutte quelle che non abbiamo potuto vedere ma ci sono state. Tutte quelle, la colza, il vento, i volti di chi non ci siamo soffermati a guardare, le parole che abbiamo lasciato scorressero via senza afferrarle, i rubinetti che abbiamo lasciato aperti senza curarci che forse portavano via le lacrime che potevamo lasciare non andassero.
Tutto quello che non abbiamo potuto toccare.
Prati di colza sfiorati dal vento.
(E.)
It’s not my cup of tea
El viaje
Babushka
Accade quando si cade. Che il tempo pare sia trascorso senza lasciare traccia dietro di sé. E il presente non è più come quando lo immaginavi futuro. Che il futuro non esiste, non è più. Non ha sogni da portare con sé, non ha favole da raccontare, non ha storie fantastiche cui avvinghiarsi. Quell’attimo che dura un soffio, quando tutte le foglie intorno sono cadute e il tappeto rossastro pare fresco e ancora vivo. Quel momento è già passato. Non hai fatto in tempo a raccoglierlo che è morto. Ha esalato il suo ultimo respiro, ha fatto la sua rivoluzione. La rivoluzione silenziosa di chi osserva cadere. Di chi guarda impassibile quella perdita del mondo tutte le volte e si copre il volto, perché non ha più nulla da desiderare. E l’attimo esatto quando si avverte che si sta per cadere risulta chiaro tutto, per un istante. Ciò che si sarebbe potuto fare, il dolore della caduta, la voglia di afferrare una maniglia e restare appesi. E in quell’istante, sotto la doccia, con la tempesta di gocce, con i piedi scivolosi, rinascere. Senza cadere fare la rivoluzione. Una piccola.
(E.)
Old and wise
Tutti i tramonti la stessa cosa. Indipendentemente dal fatto se ci sia o no, se sia col naso all’insù o meno. Tutti gli uccelli danzano. Senza pudore, anche se nessuno di loro ha preso lezioni. Tutti insieme. Vorticosi, come se sfogassero tutti i loro canti, le loro volute, il loro sporco lavoro di tutto il giorno, fatto di beccate, di rami di alberi rinsecchiti dai tubi di scappamento. Scampati, come crostacei di scoglio, risparmiati al sauté. Oscurano il cielo quando passano, grigio che sia, si muovono ritmici, come se tutti sapessero dove stanno andando e che figura mostreranno in formazione. E le ombre, quelle che il mio occhio miope vede nei loro contorno, paiono allontanarli da tutto questo, come se non fossero di qui, non appartenessero a queste strade dove invece si agitano vite che cercano ragioni anche per fermarsi in coda in panetteria e che si affannano a chiamare un taxi che li terrà fermi dietro i finestrini. La loro invece è danza fine a se stessa. Che possa far dimenticare o semplicemente che sia rito istintuale. E tutte le volte, al tramonto, li immagino, anche se non posso vederli, e quando li vedo mi rammarico di non poterlo fare sempre. Come se liberandosi di queste strade e prendendo le curve del cielo, fosse possibile invecchiare saggiamente. E con le mani sfioro fili immaginari, come quelli dei panni stesi sui balconi, immaginando la musica che possa accompagnarli.
(E.)
Le rétour du mushroom
Ci sono viaggi immaginati, come lampi di cielo a squarciare stanze di neon. Ci sono immaginazioni fervide che danzano sulla vita delle cose e delle persone, come se quello che vedessero fosse l’unico mondo possibile, l’unico certo immarcescibile. E di questo sguardo mi piace vestirmi, per non dimenticarmi che ci sono stupori e stupori e i regali più graditi vengono quando non c’è previsione di essi, quando non ce n’è motivo alcuno. E la vita scorre sui marciapiedi, di tutte le mattine, di lunedi arrotolati, scappati da sotto le coperte, scippati alle loro sfumate certezze da risveglio coi contorni di albe non ancora accennate. Incroci di sguardo di donna che sorride,come se vi conosceste da tempo. Adoro guardare la gente. La gente che si lascia guardare, che si lascia suonare con pianoforti di ciglia e arpe di capelli scossi dal vento. Ed ecco una donna hippie con un labrador al guinzaglio e il suo piccino dalla mano, con un buffo cappellino troppo grande per la sua testa.. Costruire storie. Che la libertà di guardare ci è rimasta. E certe libertà sono inaspettate e valgono come il tesoro dei pirati.
(E.)