Guardavo a terra, cercando qualcosa di familiare, visto che quello che scorgevo ad altezza uomo era sconosciuto. Uno strano individuo stava parlando in una lingua che conoscevo male, una lingua nippo-americana, un idioma usato nei comizi elettorali. Cercavo di carpire qualcosa per rendermi conto se si parlasse di requisiti per il reclutamento, ma riuscivo a capire solo la destinazione e la data di partenza: due giorni dopo e Costa d’Avorio, per poi eventuale missione su Exaticon, il satellite di insediamento del gruppo di ricerca delle riserve energetiche.
Una cosa lunga, forse, pensavo, ma la Costa d’Avorio doveva essere bella e poi lo spazio, visto soltanto una volta quando trasferivano il mio amico Jan alla stazione orbitante. Allora lo avevo accompagnato portando la macchina fotografica con un tesserino stampa falso.
Poteva riaccadere e magari avrei rivisto qualcuno di tutti quei pezzi di vita che si erano dispersi.
Nessuno che avesse sembianze simili alle mia intorno, qualcuno cercava di parlare, mi passava una birra, o chiedeva di cosa stesse parlando il tipo sul palchetto. Partire. Era la soluzione.
Una donna passava e distribuiva moduli prestampati da compilare, ne afferrai uno e lo compilai, forse avevo anche sbagliato a capire cosa c’era scritto.
Scrivevo e mettevo crocette su quadratini, mentre qualcuno si sporgeva a sbirciare cosa scrivessi.
Passarono a ritirare i fogli, che nel frattempo in pochi avevano compilato, la maggior parte dei presenti non aveva il pollice prensile o comunque non capiva una parola di quello che era scritto su quei fogli ingialliti.
Un’altra sigaretta nell’attesa, mentre il cielo che si stagliava sulla piazza era stranamente sereno, poche stelle ma vere, mentre le volute della mia sigaretta disegnavano scie che si dissolvevano lentamente. Chissà che ora era. Nella notte di poche stelle cercavo una storia da raccontarmi per ingannare l’attesa. Cercavo un motivo per rimanere o uno per andare.
Sentii fermento intorno alla camionetta, poi la voce dell’individuo col berretto di lana che aveva blaterato prima riprese a gracchiare. Chiamava. Chiamava nomi strani. E lentamente questi prescelti si avvicinavano. Sentii tanti nomi, sconosciuti, alieni. Sentii anche il mio, ma non lo riconobbi, perché detto in quella lingua infame. Riavvolsi un attimo il nastro dei pensieri e mi accorsi che ero davvero io, che dovevo andare, che ero stata chiamata. Mi feci largo fra la folla e presi posto vicino alle transenne, ricevetti un tesserino su cui scrivere il mio nome. Guardavo nel vuoto di quegli sguardi accanto a me. Ascoltavo ancora le sirene e i megafoni di altri richiami, di altre piazze forse. Guardavo le mie mani che stringevano quel tesserino, mentre una voce nella mia lingua mi parlava.
Mi voltai senza convinzione, convinta che fosse uno dei miei pensieri e trovai un uomo con le labbra socchiuse.– Mi capisci, vero? – Annuii e continuai a guardarlo interrogativa.– Sono stato chiamato, anche tu, vero? – Nessuna risposta, parlava il mio tesserino.– Sono Neil, sono un pilota, tu chi sei? – Pensavo, ma l’ascoltavo, Neil. Era forse quel Neil che era stato compagno di viaggio di Nirdosh, il mio fratellino d’adozione che adesso stava in India? Chissà quanti Neil esistono in questo universo.
Chissà poi Nirdosh dove era adesso. Se aveva davvero mollato tutto e buttato la fortuna dei suoi dietro le spalle per rincorrere i suoi desideri.
Neil continuava a parlare, parlava della Spagna e dei viaggi spaziali, ma si soffermava di tanto in tanto per guardare se lo seguivo.
Se era quel Neil io ne ero da sempre affascinata. Ma non era quel Neil. Era un Neil qualunque, uno reclutato con me e altri sconosciuti per una missione che nessuno aveva ben capito cosa fosse. Era un Neil e parlava la mia lingua.
Mi prese la mano per attirare la mia attenzione. Lo guardai e chiesi: – Neil andiamo? – . Nel frattempo si erano quasi allontanati tutti e il gruppo di reclutanti aveva dato un programma a ciascuno di noi. Avevamo almeno 12 ore prima del prossimo incontro per lo smistamento.– Come ti chiami? – Al suono del mio nome mi guardò e mi strinse le dita. – Dove andiamo? Hai fame? – Perché era così accomodante, mi chiedevo. Si sentiva solo anche lui forse, lontano dalla sua terra o soltanto bisognoso di dividere un pasto con qualcuno che capisse cosa diceva. Neil. Era il nome che avrei dovuto avere se fossi nata maschio, diceva mia madre. Neil. E lui mi accarezzava con lo sguardo come da tempo non accadeva più. Si accostò alla mia spalla, ci poggiò il suo mento e sussurrò:– Andiamo, facciamo due passi – . Prese la mia sacca e la mia mano e mi chiese di alzare lo sguardo, le luci erano meno forti e la nottata era serena, dovevo godermela. Non guardavo più i piedi, avevo nei jeans il tesserino e dalla mano Neil.
Iniziai a parlare, ma dei sogni che facevo, raccontai che avevo sognato una cosa simile tempo prima, una nottata simile intendevo, e forse di lì avevo preso coraggio per partire, come molti dei miei più cari amici avevano fatto. Pensavo a Jan, lontano, che non sentivo da tanto, che forse non avrei rivisto, pensavo a Nirdosh e a quel Neil che non avevo mai conosciuto. E invece un Neil sconosciuto mi teneva la mano e mi ascoltava, mi faceva sorridere e mi mostrava le poche stelle rimaste raccontandomi le loro storie.
Mi porgeva un boccone di qualcosa di commestibile mentre parlavo di una canzone che stavo canticchiando quella mattina, o quella notte, comunque quando m’ero svegliata, o di un libro che avevo letto. Mi saltellava accanto cercando di farmi sorridere, per far comparire quelle pieghe sulle guance che aveva scorto per un attimo e che voleva rivedere assolutamente.
Non pensavo più a Jane, al viaggio, quella notte improvvisamente era lunga ma non troppo. Andavamo verso un gruppo di uomini, individui era forse la migliore definizione. Forse Neil ne conosceva qualcuno. Ci avvicinammo mentre sentivamo che sembrava litigassero. Neil lasciò la mia mano delicatamente e si avvicinò ad uno di loro, vidi il plutoniano indicare una strada sulla destra, poi fare giri con le dita, o con le estremità che possedeva, per poi tornare a litigare con il resto del gruppo. Mi avvicinai a Neil che era rimasto fermo lì davanti ad un cartellone luminoso. E la luce si rifletteva sul suo volto illuminandone le pieghe e esaltandone lo sguardo, colorava di rosso i suoi capelli e le sue gote, trasformava il blu del suo maglione. Neil incantato lì come in trance davanti a quel rosso accecante.Trovai il suo viso arrossato dalla luce e avvicinai il mio per provare la sensazione di quel colore sul volto. E lo abbracciai.
Uno sfiorarsi dolce e intenso, anche se breve. Cercò i miei occhi in controluce e così anche le mie labbra. E nel rumore intorno, mentre gli energumeni litigavano ancora e quella luce ci attraversava i capelli, ci baciammo a lungo. Ad occhi chiusi e ad occhi aperti, per assaporare la sensazione del solo rumore intorno e anche della luce forte nel buio. A lungo, con le labbra morbide e dolci di bambini che si addormentano con le dita in bocca o che mangiano la cioccolata sporcandosi ovunque. Un bacio che ad un tratto era quasi nel silenzio; sparì ogni frastuono intorno, mentre qualche goccia di pioggia bagnava i nostri volti. Lenta pioggia quasi musicale, mentre il bacio si spegneva in una carezza di Neil sulla mia guancia su cui scivolavano le gocce di pioggia.
Entrammo in un bar, mai staccando lo sguardo l’uno dall’altra, e su una sedia posammo sacca e giacche, mentre una donna ci porgeva da bere. Guardavo Neil, quello sconosciuto che mi aveva fatto dimenticare quello che lasciavo e quello che dopo meno di due giorni avrei fatto. Io con i miei colori e la mia macchina fotografica. Con una sciarpa e due paia di mutande nella sacca. E qualche altra cosa appallottolata di corsa prima di chiudere quella porta a chiave.
(E.)