Corteccia

Nell’oblio di questa notte

mi rassomigli un po’

rassomigli al mio mondo,

al mio neo sognato

sotto le labbra.

Sono stata sola come quel neo,

come una galleria buia,

come un mercato affollato e vociante.

Da me fuggivano i giorni,

la notte entrava possente

per poi tornare a celarsi.

Uccelli destati da uno sparo,

liberavano il mio cielo

e mi sopravvivevano nel volo.

Corpo di pelle, di edera, di acqua.

Corpo che mi spinge a cercare

nella terra bruna,

nella corteccia di un albero

che cade e ricorda il tempo,

la ragione di questa sete.

Di questa strada indecisa e tortuosa

che conduce di nuovo in questa stanza

dove cerco un motivo,

inutile,

per cui mi rassomigli.

(E.)

Published in: on settembre 30, 2007 at 11:54 PM  Comments (4)  

Miss Van

miss-van.jpg 

Uno zuccherino d’artista (“di strada”). Ho visto le rotonde e intriganti figure femminili di Miss Van per la prima volta sui muri della Boqueria di Barcellona ma poi anche in una mostra a Valencia. Fantastic

Published in: on settembre 29, 2007 at 12:24 PM  Comments (8)  

Partire (II parte)

Guardavo a terra, cercando qualcosa di familiare, visto che quello che scorgevo ad altezza uomo era sconosciuto. Uno strano individuo stava parlando in una lingua che conoscevo male, una lingua nippo-americana, un idioma usato nei comizi elettorali. Cercavo di carpire qualcosa per rendermi conto se si parlasse di requisiti per il reclutamento, ma riuscivo a capire solo la destinazione e la data di partenza: due giorni dopo e Costa d’Avorio, per poi eventuale missione su Exaticon, il satellite di insediamento del gruppo di ricerca delle riserve energetiche.

Una cosa lunga, forse, pensavo, ma la Costa d’Avorio doveva essere bella e poi lo spazio, visto soltanto una volta quando trasferivano il mio amico Jan alla stazione orbitante. Allora lo avevo accompagnato portando la macchina fotografica con un tesserino stampa falso.

Poteva riaccadere e magari avrei rivisto qualcuno di tutti quei pezzi di vita che si erano dispersi.

Nessuno che avesse sembianze simili alle mia intorno, qualcuno cercava di parlare, mi passava una birra, o chiedeva di cosa stesse parlando il tipo sul palchetto. Partire. Era la soluzione.

Una donna passava e distribuiva moduli prestampati da compilare, ne afferrai uno e lo compilai, forse avevo anche sbagliato a capire cosa c’era scritto.

Scrivevo e mettevo crocette su quadratini, mentre qualcuno si sporgeva a sbirciare cosa scrivessi.

Passarono a ritirare i fogli, che nel frattempo in pochi avevano compilato, la maggior parte dei presenti non aveva il pollice prensile o comunque non capiva una parola di quello che era scritto su quei fogli ingialliti.

Un’altra sigaretta nell’attesa, mentre il cielo che si stagliava sulla piazza era stranamente sereno, poche stelle ma vere, mentre le volute della mia sigaretta disegnavano scie che si dissolvevano lentamente. Chissà che ora era. Nella notte di poche stelle cercavo una storia da raccontarmi per ingannare l’attesa. Cercavo un motivo per rimanere o uno per andare.

Sentii fermento intorno alla camionetta, poi la voce dell’individuo col berretto di lana che aveva blaterato prima riprese a gracchiare. Chiamava. Chiamava nomi strani. E lentamente questi prescelti si avvicinavano. Sentii tanti nomi, sconosciuti, alieni. Sentii anche il mio, ma non lo riconobbi, perché detto in quella lingua infame. Riavvolsi un attimo il nastro dei pensieri e mi accorsi che ero davvero io, che dovevo andare, che ero stata chiamata. Mi feci largo fra la folla e presi posto vicino alle transenne, ricevetti un tesserino su cui scrivere il mio nome. Guardavo nel vuoto di quegli sguardi accanto a me. Ascoltavo ancora le sirene e i megafoni di altri richiami, di altre piazze forse. Guardavo le mie mani che stringevano quel tesserino, mentre una voce nella mia lingua mi parlava.

Mi voltai senza convinzione, convinta che fosse uno dei miei pensieri e trovai un uomo con le labbra socchiuse.– Mi capisci, vero? – Annuii e continuai a guardarlo interrogativa.– Sono stato chiamato, anche tu, vero? – Nessuna risposta, parlava il mio tesserino.– Sono Neil, sono un pilota, tu chi sei? – Pensavo, ma l’ascoltavo, Neil. Era forse quel Neil che era stato compagno di viaggio di Nirdosh, il mio fratellino d’adozione che adesso stava in India? Chissà quanti Neil esistono in questo universo.

Chissà poi Nirdosh dove era adesso. Se aveva davvero mollato tutto e buttato la fortuna dei suoi dietro le spalle per rincorrere i suoi desideri.

Neil continuava a parlare, parlava della Spagna e dei viaggi spaziali, ma si soffermava di tanto in tanto per guardare se lo seguivo.

Se era quel Neil io ne ero da sempre affascinata. Ma non era quel Neil. Era un Neil qualunque, uno reclutato con me e altri sconosciuti per una missione che nessuno aveva ben capito cosa fosse. Era un Neil e parlava la mia lingua.

Mi prese la mano per attirare la mia attenzione. Lo guardai e chiesi: – Neil andiamo? – . Nel frattempo si erano quasi allontanati tutti e il gruppo di reclutanti aveva dato un programma a ciascuno di noi. Avevamo almeno 12 ore prima del prossimo incontro per lo smistamento.– Come ti chiami? – Al suono del mio nome mi guardò e mi strinse le dita. – Dove andiamo? Hai fame? – Perché era così accomodante, mi chiedevo. Si sentiva solo anche lui forse, lontano dalla sua terra o soltanto bisognoso di dividere un pasto con qualcuno che capisse cosa diceva. Neil. Era il nome che avrei dovuto avere se fossi nata maschio, diceva mia madre. Neil. E lui mi accarezzava con lo sguardo come da tempo non accadeva più. Si accostò alla mia spalla, ci poggiò il suo mento e sussurrò:– Andiamo, facciamo due passi – . Prese la mia sacca e la mia mano e mi chiese di alzare lo sguardo, le luci erano meno forti e la nottata era serena, dovevo godermela. Non guardavo più i piedi, avevo nei jeans il tesserino e dalla mano Neil.

Iniziai a parlare, ma dei sogni che facevo, raccontai che avevo sognato una cosa simile tempo prima, una nottata simile intendevo, e forse di lì avevo preso coraggio per partire, come molti dei miei più cari amici avevano fatto. Pensavo a Jan, lontano, che non sentivo da tanto, che forse non avrei rivisto, pensavo a Nirdosh e a quel Neil che non avevo mai conosciuto. E invece un Neil sconosciuto mi teneva la mano e mi ascoltava, mi faceva sorridere e mi mostrava le poche stelle rimaste raccontandomi le loro storie.

Mi porgeva un boccone di qualcosa di commestibile mentre parlavo di una canzone che stavo canticchiando quella mattina, o quella notte, comunque quando m’ero svegliata, o di un libro che avevo letto. Mi saltellava accanto cercando di farmi sorridere, per far comparire quelle pieghe sulle guance che aveva scorto per un attimo e che voleva rivedere assolutamente.

Non pensavo più a Jane, al viaggio, quella notte improvvisamente era lunga ma non troppo. Andavamo verso un gruppo di uomini, individui era forse la migliore definizione. Forse Neil ne conosceva qualcuno. Ci avvicinammo mentre sentivamo che sembrava litigassero. Neil lasciò la mia mano delicatamente e si avvicinò ad uno di loro, vidi il plutoniano indicare una strada sulla destra, poi fare giri con le dita, o con le estremità che possedeva, per poi tornare a litigare con il resto del gruppo. Mi avvicinai a Neil che era rimasto fermo lì davanti ad un cartellone luminoso. E la luce si rifletteva sul suo volto illuminandone le pieghe e esaltandone lo sguardo, colorava di rosso i suoi capelli e le sue gote, trasformava il blu del suo maglione. Neil incantato lì come in trance davanti a quel rosso accecante.Trovai il suo viso arrossato dalla luce e avvicinai il mio per provare la sensazione di quel colore sul volto. E lo abbracciai.

Uno sfiorarsi dolce e intenso, anche se breve. Cercò i miei occhi in controluce e così anche le mie labbra. E nel rumore intorno, mentre gli energumeni litigavano ancora e quella luce ci attraversava i capelli, ci baciammo a lungo. Ad occhi chiusi e ad occhi aperti, per assaporare la sensazione del solo rumore intorno e anche della luce forte nel buio. A lungo, con le labbra morbide e dolci di bambini che si addormentano con le dita in bocca o che mangiano la cioccolata sporcandosi ovunque. Un bacio che ad un tratto era quasi nel silenzio; sparì ogni frastuono intorno, mentre qualche goccia di pioggia bagnava i nostri volti. Lenta pioggia quasi musicale, mentre il bacio si spegneva in una carezza di Neil sulla mia guancia su cui scivolavano le gocce di pioggia.

Entrammo in un bar, mai staccando lo sguardo l’uno dall’altra, e su una sedia posammo sacca e giacche, mentre una donna ci porgeva da bere. Guardavo Neil, quello sconosciuto che mi aveva fatto dimenticare quello che lasciavo e quello che dopo meno di due giorni avrei fatto. Io con i miei colori e la mia macchina fotografica. Con una sciarpa e due paia di mutande nella sacca. E qualche altra cosa appallottolata di corsa prima di chiudere quella porta a chiave.

(E.)

Published in: on settembre 26, 2007 at 10:28 am  Comments (9)  

Due giorni a Bettola

Ho le natiche doloranti.

Inspiegabilmente.

Dall’angolo opposto della visuale, si vede l’abbaino che regala luce alla stanza antistante le camere.

Le camere, tante, tutte un po’ fredde, tutte un po’ ingoiate dal minimo indispensabile, ma spalmate in tanto spazio, interminabile, pieno di legno, pietra e luce.

Urla di bimbi, la piscina gelida, il sole che scalda rammentandosi di come scaldava un mese fa.

Un verde roccioso, fiori rossastri un po’ ammalati, smeraldo spruzzato intorno fra i poggi, verde e morbidezza, sole e profumo di brace.

Colonne di pietra, travi di legno, due cani neri di corsa, un gatto piccolo e baffuto si crogiola al sole, mentre i pomodori bitorzoluti sono maturi e aspettano di essere colti.

La soglia e’ con un ponte di pietra, rocce bianche incastonate e scale.

Scale, quante scale, un disegno sul prato ad anello, un piano terra con spifferi dalle porte finestre opposte.

Sabato mattina ho aperto gli occhi tardi. Silenzio intorno.Con gli scuri chiusi sembrava l’alba, invece aperti dirompente il fulgore del pieno giorno ha invaso una camera con tre lettini. Ho infilato braghe e pullover e ho lasciato la stanza.

Fuori dalla porta, sul ballatoio, un riverbero dal tetto spiovente avvolgeva i libri abbandonati su uno scaffale nuovo, scuro e solitario.

Il miracolo della luce sul legno, della Val Nure sul silenzio di un casale deserto.

Ho percorso le scale lentamente, tendendo le orecchie aspettando una replica ai miei passi. Nessun soffio, nessun fruscio.

Il ponte esterno grigio inondato di luce, dalla parte opposta la terrazza aperta su spicchi di onde disegnate dalle colline.

Silenzio.

Che lentamente e’ stato conquistato dal brusio di voci lontane, poi lentamente dal chiasso della ciurma in rientro dal mercato del borgo.

Poi dagli schiamazzi scomposti di qualche battuta grossolana.

Fine dell’incanto.

(E.)

Published in: on settembre 24, 2007 at 10:22 am  Comments (9)  

Attendibilita’ e serieta’ (scene da un TG)

Come si fa a dare credito ad un comico che urla da un palco? I comici devono far ridere, non mandare a quel paese.
Dovrebbero fare una legge per farli stare zitti, per farli rimanere nelle loro gabbie.
Che idea! Potremmo mandarli coi maiali assieme a Borghezio.
Tutti quelli che si chiamano Grillo. Tutti i comici liguri che si chiamano Grillo, pero’.
Giustamente Scalfari inveisce contro i comici, che stiano al loro posto, che rischiano al massimo di portarci un dittatore e di finire poi in galera come ricompensa! E poi che volgarita’!Mandare a quel paese! Almeno Sordi era meno diretto, quando “te ce mannava a quer paese”!Ed ecco invece Luttazzi, lui si che prende le distanze dai suoi colleghi volgari, lui che mangiava escrementi in diretta, lui si che puo’ dirsi attendibile e inquadrato. Lui che ha rischiato di essere trombato perche’ il Berlusca lo aveva preso di mira, lui che invece voleva solo parlare e basta.
Mica mandare a quel paese! No. Lui no.
Detto questo aspettiamo che si strozzi, Grillo, che parla che pare che gli sia rimasto solo il resto di un euro di voce. Poca roba, prima o poi finisce.
E poi che dire dei politici, infondo loro stanno provando a cambiare, stanno cambiando la faccia ai loro partiti, si stanno impegnando, non sprecate le vostre voci a blaterare cose oscene nelle piazze, ascoltate la buona novella della “Repubblica” che cambia faccia per prepararsi ad accogliere meglio il nuovo movimento democratico, ehm, la nuova forza democratica, beh la nuova formazione democratica, la nuova setta, no!, la nuova consorteria democratica che guidera’ il paese verso il superamento delle crisi di identita’!
Non usiamo piu’ la parola partito perche’ ricorda cose da dimenticare, robe da comunisti e democristiani!
Sul democratico invece ci ispiriamo a Walter e agli USA, roba da democrazia vera, roba che significa che tutti possono parlare, che nessuno ha il bavaglio.
Certo, puo’ straparlare anche il matto per strada, puo’ pontificare nel bel mezzo dei giardinetti mentre intorno c’e’ chi fa sano footing!
A tutti e’ concesso parlare e non diciamo corbellerie! Si puo’ dire tutto quello che si vuole, vedete il tizio che sta parlando in TV adesso? Ecco anche lui puo’ dire quello che vuole.
Quindi cerchiamo di non valicare il limite della compiacenza.
Limitiamoci nelle parolacce, basta col turpiloquio.
E attenti, che’ il terrorismo e’ in agguato!
E adesso il meteo, segue Mollica con le sue interviste in cui sono tutti bravi e meravigliosi e i film meritano tutti di essere visti.

che tempo che fa

(E.)

Published in: on settembre 21, 2007 at 11:34 am  Comments (7)  

Caravanserraglio

Stessa strada, tutti i giorni.

Traffico, clacson, auto parcheggiate. Tutti i giorni lo stesso tratto a piedi dal punto a al punto b.

Tutti i giorni distratta, al telefono, col naso all’insu’. Tutti i giorni.

E sono solo due giorni che non ho ignorato che c’e’ chi vive in roulotte fuori dalla stazione di Lambrate.

Solo due giorni che mi accorgo che passo sempre accanto ad un caravan che se chiudo gli occhi lo vedo. Lo vedo come parte del panorama. Ma ad occhi aperti e’ trasparente.

Due giorni soli.

Ieri l’altro c’era un uomo davanti alla finestrella, ho potuto scorgere il suo collo bruno e sottile, la maglietta rosso scuro, un busto asciutto, una bottiglia di plastica con dentro dell’olio. Di semi.

Di fronte ai fornelli. Alle sette e trenta della sera, con la luce fuori e la gente che cammina intorno.

Cucinava qualcosa, si sentiva odore di fritto. Sciolto sulla strada, diffuso.

Era dal lato sinistro della carreggiata. Mi son chiesta se l’avessi visto altre volte.

Visto forse, pensato mai.

Come quando osservi le cose che non fai caso al fatto che ci vedi. Che non sei cieco.

Che la luce ti sfiora, ti circonda.

Ieri sera lato destro della strada.Speculare.

Finestrelle aperte, tutte.

Un cane fuori, mai visto prima, accoccolato. Un occhio chiuso. Una scopa appoggiata sulla porta d’ingresso, aperta.

Odore di vespasiano. Forte, pungente.

Nessuno dentro.

Eppure da lontano pareva che fosse giorno di striglio. Invece no.

Da vicino non sembra piu’.Tutto aperto, deserto e silente. Nauseante.

Intorno il caos solito.

Solo io sono diversa. Cerco da due giorni di capire.

Di vedere, di scrutare e di ricordare.

Chi vive qui che vita ha? Che vita e’ morire in una strada con della latta intorno?

Mentre dei ciechi ti attraversano vociando.

(E.)

Published in: on settembre 19, 2007 at 11:59 am  Comments (3)  

Sotto la pioggia

Vestita di tutto punto, tono su tono, mi chiamava al telefono dall’altra parte della strada, mentre la scorgevo di lontano. Mi diceva che era lì e che mi aspettava e mi salutava come se non dovessimo vederci. La raggiungevo, era stupita avessi l’ombrello. Conosceva la mia idiosincrasia a quegli oggetti, inutili per me.

Era bella, sorridente, ma con un’ombra negli occhi. Che solo io potevo vedere. Iniziava a parlare, col suo solito tono. Gioiosa, solare. Mi abbracciava, quasi fossimo bimbi che si riparano dal freddo, continuando a parlare, ascoltandomi. Come al solito. Con i suoi occhi morbidi, con le sue dita ferme sull’ombrello.

Ad un tratto, fece scivolare fra le parole che aveva pianto. Senza motivo. Cercava conforto senza dirlo. Trovò il mio bacio. Le ero madre in quel momento e glielo dissi. Lei mi sorrise, annuendo.

Le facevo notare che stava bene, che la vedevo in forma, che i suoi occhi erano scintillanti, come dopo un pianto, sì, ma anche d’amore. Quello vero, quello silenzioso.

Lei mi mostrava il suo nuovo giaccone, bello, caldo, comodo. Le stava a pennello. Finalmente le vedevo indosso qualcosa che le appartenesse e che le rendesse giustizia. Ero felice.

Tornò sull’argomento, trovò subito la mia mano sul suo viso. Le dissi che nessuno poteva farla piangere, nemmeno se stessa. Non l’avrei permesso. Aveva gli occhi lucidi. L’accompagnai per un pezzo al ritorno, scappavamo verso mete diverse, con la promessa di rivederci presto. Il mio braccio la cingeva, mentre le cercavo il suo sguardo che si rasserenava. Lentamente. Volgeva verso le cose che l’aspettavano. Luminoso.

Ci salutammo, sotto la pioggia battente.

Mezz’ora di noi, rubata e vera.

Le dissi che le volevo bene, mentre si allontanava, con i suoni di quelle parole nascosti dalla pioggia.

E.    (a mia madre)

Published in: on settembre 18, 2007 at 1:46 PM  Comments (4)  

Lo normal…

palloni.jpgLo nromal, volando

Lo normal es ver una peli enterita, y luego sacar cada uno su propia opinión; pero como no siempre todo eso es cierto, os cuento que he visto sólo un trozo de peli y que sólo ese trozo os recomiendo ver… justo el principio (por supuesto, la peli se produjo segun los canonens del cine, comienzo, desenlace y todo lo demas). Ese principio a mi me dejó totalmente anonadada. Me ocurrio ver ese trozo magistralmente comentado por Carlos Fuentes en un programa televisivo, Carta Abierta, presentado por Isabel Coixet.

Me refiero al principio de “Enduring Love” de Roger Michell. La parte inicial te deja sin respiro y me dejó tan impactada que todavia no siento la necesidad de ver la restante parte de la peli. Por supuesto,  en youtube encontrarais toda la parte inicial. A ver lo que se siente…

C.

Published in: on settembre 17, 2007 at 1:50 PM  Comments (2)  

Canzone, sogno, destino

È il dolore che ulula come un passo in un bosco.
Solitudine della notte. Solitudine dell’anima.
Il grido, l’urlo. Il trapasso.

Che ricorda l’attraversare le carni.

Il declino, il crollo.
La belva che intimorisce i canti e le lacrime.
Solo l’ombra sterile aperta dalle mie urla.
E la parete del cielo tesa contro il silenzio.

E’ il mostro, il ferro tagliente.

Sei. Tu sei ancora. Qualcuno era. E lo si cerca ancora.
Labbra di bacio, frutta di sogno, tutto.
E non si puo’ pensare sia nascita.

Perche’ altrimenti sarebbe vita.

Rimane luminaria di luna sui campi deserti.

(E.)

Published in: on settembre 14, 2007 at 9:29 am  Comments (3)  

Pendolo.!.!.!.!

Il pendolino viaggia celere per recuperare il ritardo accumulato.

L’accademico, seduto di fronte a me ripeteva presuntuoso che l’anima gemella era un fatto quasi dimostrato.

– Il fato e il destino sono elementi presi in notevole considerazione nelle ricerche scientifiche, economiche, in tutto.

(2.7m x 3.5 m, h = 2.80 m)

Il destino esiste! E’ per questo che io credo nell’anima gemella. In modo assoluto-, assentiva, mentre si avvicinava gli occhiali al naso e i suoi due incisivi gli davano ragione sporgendosi dalle labbra umide.

Il militare partecipava alla conversazione con meno concitazione, visto la sua sofferenza al viaggio in pendolino (anche il nome “pendolino” effettivamente richiama un po’ di mal di mare!). Lui vedeva le mie posizioni, studiava me, forse infastidito altrettanto dagli atteggiamenti radicali dell’accademico nella discussione in fatto di soluzioni al terrorismo. Infatti, l’accademico, formatosi a Oxford, non si limitava a dare uno spaccato preciso della questione antisemitica dalle origini ai nostri giorni, fornendo percentuali date e quant’altro servisse a collocare il suo discorso nell’ambito scientifico, ma con una lucida analisi aveva infornato le sue fobie sulla civiltà araba insieme alle esperienza vissute a Londra durante i giorni degli attentati. Diceva che i persiani non avevano inventato nulla e con una presunzione da arcilaureato, aggiungeva che era una civiltà di incivili. Io dibattuta tra il fastidio e la riprovazione pensavo ai tappeti e ai paragrafi sulle civiltà dei miei trascorsi sussidiari.

Il militare e io provammo a interporre un dialogo alla sua ostinazione esponendo il nostro dissenso alla intransigenza delle sue posizioni, ma i suoi eminenti titoli lo facevano sentire così fortezza da non fargli provare il benché minimo dubbio rimorso alle sue frasi anche un po’ razziste. Forse è stato questo che ci aveva uniti in quell’occasione, a me e al militare. Forse era proprio stato questo, mi dico, a indurre il militare a credere al fatto che visto che entrambi affermavamo di non credere all’anima gemella, allora eravamo davvero fatti l’uno per l’altra!

L’ultimo tratto di treno, prima di intravedere l’apertura dello Stretto tra le gallerie intermittenti e la notte, lo passai schivando i tentativi del militare di prospettare un eventuale altro incontro o lo scontato scambio dei numeri di telefono. Riuscii ad evitarlo, anche perché lui scese una fermata prima della mia. Non mi piaceva il suo alito, affatto!

(C.)

Published in: on settembre 13, 2007 at 1:28 PM  Comments (4)