Less is more
Ho paura quando ho freddo
la foto è mia, ieri, parco
In quei momenti interminabili e unici, quando niente può entrare e niente può uscire, nessun sussurro, solo gli uccelli e due pagine di un libro letto all’imbrunire finchè gli occhi possano distinguere le lettere, sulla soglia del balcone, in un tempo senza tempo, tornano sapori non ascoltati o fuggiti per troppa fretta di arrivare e non si è arrivati, non ci si è mai fermati. Momenti di magliette verdi, rubate su un letto, mentre storie di solitudine si srotolavano in case che non ci appartenevano. E quella maglietta verde, che abbiamo indosso, è l’unica cosa che ci ricorda che quei momenti ci sono stati e che li abbiamo sprecati. Ad ascoltare i rumori della tangenziale rombante, in quella casa dove non siamo più stati. Col caldo che stava arrivando e le speranze che avremmo fatto questo o quello. E poi scendere in strada in un giorno qualunque e rivedere volti dimenticati, rumori tappati come bocche che dicono troppo e dovrebbero tacere. Alzarsi sulle punte delle scarpe e sentirsi felici per un attimo. E ricordare quella felicità fatta di nulla. Perché è il nulla che ci strappa un sorriso, il pieno ci ingolfa, ci leva il fiato. E ricordarsi di amare come quella volta, di essere ancora l’involucro che raccoglie tutti quei sogni, quelle corse coi piedi di rugiada in un giardino qualunque. Ricordare che dentro quella maglietta verde, con un buco ormai, vestita come si veste il silenzio di ciò che non abbiamo saputo trattenere, c’è sempre quel sogno, quel canto per sconfiggere la paura e il freddo. Anche se il freddo in sere come queste è un frullo di uccelli e un rumore lontano della strada. Che c’è ma non si vede. (E.)Green plastic watering can
Goodbye my lady
Svegliarsi trent’anni fa. Che si potrebbe fare una volta. Così per cambiare. Cancellare tutto, le scadenze, il trucco sotto gli occhi a cancellare il sonno mancato, la tastiera sotto le dita. A cancellare. Che cancellare pare una cosa impossibile, eppure sarebbe meraviglioso. Forse proprio perché impossibile. Che io sono affascinata dalle cose che non si possono fare avere dire raggiungere guardare toccare lasciare alle spalle. Verbi tutti in fila, cancellare le punteggiature. Mettere i calzettoni, una sciarpa, vestire il silenzio e sé stessi. Una volta. Ci sono lacrime che non vogliono scendere, perché decidono di restare sul bordo. Perché stanno bene lì al calduccio e di fare un giro non ci pensano nemmeno. E ci sono giorni come quelli che crediamo di aver vissuto perché ne abbiamo un vago ricordo, in cui sognavamo di essere una signora. Una signora con i collant. E adesso che ci chiamano signora sotto al cappello di lana dal tabaccaio, pensiamo ai calzini che indossiamo.
E non per il casual friday.
(E.)
Cose che non è dato di sapere
O che non cambia il mondo se non le sai.
Il sistema che regola le sincronizzazioni dei semafori, per esempio.
Quei secondi decisi da qualcuno che regolano l’universo.
Pensavo a Gianni Rodari stamattina, mentre cercavo di non fare l’ennesima scivolata sul ghiaccio, pensavo a come la racconterebbe lui la storia delle cose che non sappiamo.
La storia delle cose che non hanno voce, che se anche se l’avessero poi forse non l’ascolteremmo.
La storia dei pianeti che non conosciamo, delle voci degli animali che non sappiamo distinguere, la storia degli omini dei semafori, che si lanciano un urlo dall’altra parte della strada e fanno scattare il verde, tutti insieme. Omini che nessuno ha visto e che permettono di fermarsi a guardare fuori da finestrini anche quando hai fretta.
La storia di coloro che pur non sapendolo rendono alcune cose possibili.
Come quella di contare i cumuli di neve durante il tragitto, di indovinare il colore esatto che avrà il sole quando incrocerà gli alberi dietro al campo.
La storia delle cose di cui non conosciamo la ragione, ma sappiamo che sono così.
Uscire alla stessa ora, anche se è presto. Fare gli stessi passi, cercare le stesse persone, guardare la data sull’insegna luminosa della farmacia.
Guardarsi le scarpe da sotto al cappello.
Guardare i passi del mattino e non contarli, anche se sono fra gli ultimi dell’anno.
Passi sprecati, buttati lì, non misurati, ampi e generosi.
Che i semafori in confronto sono morigerati, che lampeggiano di giallo le stesse volte e ogni volta quel secondo fra il rosso e il verde lo conti, guardando chi parte prima.
(E.)
Il compleanno dell’Imperatore
Ci sono giorni in cui quando esce il sole pare davvero sia in grado di curare tutti i mali. Di pulire il mondo dalle brutture, di cancellare il natale per chi non lo vuole e di darlo a chi lo cerca. Mi ritrovo sotto ad un albero vero con gli aghi conficcati nel maglione a sette anni. Con due babbucce ai piedi e calze di lana bucate sulle ginocchia. A montare le luci e le palline, di corsa prima dell’ora di cena. Sottane viste dal basso, le sottane degli anni sessanta nel millenovecentottanta, con due stivali a controllare tutto, che nessuno si faccia male, si fulmini con il filo. E cotto a terra, lucido, una cassapanca di legno del seicento di lato, piena di buchi, un ingresso visto dal basso, che pareva enorme. L’attesa era carica, ci sarebbero stati papa` e mamma, che in una stessa stanza non li ricordavo più e non ci sarebbero più stati a natale, e natale non sarebbe stato più. E adesso il natale è solo dormire un po’ di più quel mattino e cucinare a cena i calamari ripieni e sperare che l’anno che viene possa portare qualche viaggio, qualche buon libro, qualche mattina stretti sotto le coperte, un paio di buone foto e tanta pazienza. E oggi in Giappone è festa nazionale. L’imperatore fa il compleanno e stanno tutti a casa, senza scarpe, molli, stanno a casa e gioiscono del piacere effimero di festeggiare un cesare del duemila, un Akihito che ha chiamato il suo regno Heisei. Il regno della pace imminente. Che imminente sia. Ecco, questo mi auguro, nel giorno del compleanno dell’ultimo imperatore.
(E.)
My season’s greetings
Ci sono momenti in cui ci si sente quasi nauseati dal Natale. Momenti in cui si vorrebbe saltare tutto e trovarsi già oltre. E sono solo momenti, che passano in un fiato. Ci sono nuove frontiere, dimenticate le vecchie, come se fossero state raggiunte. Ci sono vecchie manie. Che non passeranno mai, come la mia per dissacrare, quando possibile. Ma in momenti come quelli, in cui ci si stringe di più e si cerca di fare i più buoni, incrociando sorrisi fasulli che vanno scremati, che lavoraccio, dai sorrisi veri, provenienti dalle viscere delle nostre intime debolezze, mi sento di fermarmi a guardare fuori. Che a guardarsi dentro spesso si trova solo una vecchia cloaca e fuori semmai si incrocia qualche strana linda toilette. Consolarsi a Natale. O quasi.
(E.)
This train terminates at Leyton
Questo treno si fermerà. Tutte le mattine attraverso il silenzio che devo riempire con musica. Forse non devo, ma voglio. Come se cercassi risposte a una fine che a volte vedo quasi riflessa sui vetri dell’autobus. E cerco di imprigionarla, come se sapere di possederla potesse restituire il tempo annegato. E corro su quelle rotaie ancora, con gli occhi chiusi a sentire il rumore di un tempo più leggero. E scendo dal treno, cammino piano, so che i passi posso contarli, so che posso ridere alla gente, so che il mondo che mi circonda adesso, in quell’adesso che non è più, lo ricorderò. High Road piano, contando le lettere sui cartelloni, sbirciando dentro ai pubs di legno, dentro gli occhi dei pakistani, dietro ai cartelli dei menu, fra le lettere non scritte, nei cieli immaginati del futuro che sarebbe stato. Quel treno quando finiva a Leyton era destino che dovessi prenderne un altro, scendevo alla fermata dopo, Leytonstone, guardavo Stratford passare, poi Leyton e poi se continuava era fatta, la voce anche se la sentivo che diceva Epping non mi fidavo, guardavo fuori, che lì il tube è esterno e corre tagliando campi e case tutte uguali. Scendevo e facevo quella strada lunga fino alla casa che ospitava persone che non vedo più quasi da allora. La facevo col caldo e col freddo, avvolta nel cappotto o con un golfino leggero barcollando la sera dopo i bagordi a Leicester Square. E quel treno l’ultima volta l’ho preso al contrario, parlavo con un rosso della Normandia, Cedric, credo, scesi ad Holborn e non lo vidi più. I treni terminano. Fanno dei giri immensi, tornano indietro per farti montare su a volte. Se sei veloce. E poi finiscono.
(E.)
Vi invito ad ascoltare questa (qui)
Babushka
Accade quando si cade. Che il tempo pare sia trascorso senza lasciare traccia dietro di sé. E il presente non è più come quando lo immaginavi futuro. Che il futuro non esiste, non è più. Non ha sogni da portare con sé, non ha favole da raccontare, non ha storie fantastiche cui avvinghiarsi. Quell’attimo che dura un soffio, quando tutte le foglie intorno sono cadute e il tappeto rossastro pare fresco e ancora vivo. Quel momento è già passato. Non hai fatto in tempo a raccoglierlo che è morto. Ha esalato il suo ultimo respiro, ha fatto la sua rivoluzione. La rivoluzione silenziosa di chi osserva cadere. Di chi guarda impassibile quella perdita del mondo tutte le volte e si copre il volto, perché non ha più nulla da desiderare. E l’attimo esatto quando si avverte che si sta per cadere risulta chiaro tutto, per un istante. Ciò che si sarebbe potuto fare, il dolore della caduta, la voglia di afferrare una maniglia e restare appesi. E in quell’istante, sotto la doccia, con la tempesta di gocce, con i piedi scivolosi, rinascere. Senza cadere fare la rivoluzione. Una piccola.
(E.)